La vita e l’arte di
Giorgio Faletti
Cosa
fa di uno scrittore un ottimo narratore? Cos’è che ci fa chiedere in qualunque
momento della giornata come si comporterebbe o come la penserebbe il
protagonista del romanzo che stiamo leggendo? Qual è la molla che scatta quando
sentiamo di essere “dentro” le vicende raccontate? Sono queste le domande che
mi sono posta dopo essermi trovata pochi anni fa tra le mani, per puro caso, Io uccido di Giorgio Faletti, il primo
thriller dell’autore astigiano, che ha venduto solo in Italia più di quattro
milioni di copie ed è stato tradotto in tutte le principali lingue del mondo.
Faletti
è venuto a mancare dopo una malattia lo scorso luglio, a soli 63 anni. Già nel 2002,
poco dopo l’uscita di Io uccido, aveva
superato un altro grave problema di
salute. La moglie Roberta in una recente intervista ha ricordato quanto quella
prova avesse cambiato la vita del suo compagno, il quale non dimenticava mai di
aver avuto una seconda chance, anzi ripeteva spesso “se penso che in questi 12 anni ho fatto le cose a cui tenevo di
più, devo ritenermi l’uomo più fortunato del mondo”.
Negli anni, dai suoi esordi nel panorama del cabaret
milanese fino al successo dei suoi gialli, ci ha abituato a non abituarci troppo
in fretta ad un’opinione su di lui: sempre versatile, non si è mai adagiato
sull’etichetta di comico, attore, paroliere o cantautore. Si è anzi lanciato in
diverse esperienze artistiche, fino alla letteratura, ricevendo in cambio
l’affetto di un vasto pubblico ma spesso anche delle critiche per la sua ‘non
classificabilità’ e per i pregiudizi di chi lo considerava un outsider e non si è voluto ‘rassegnare’
ad annoverarlo nella categoria degli scrittori.
All’opposto estremo, invece, il parere di uno
degli autori di thriller di maggior successo negli Stati Uniti, Jeffery Deaver,
che ha dichiarato nel 2009: “Uno come Giorgio
dalle mie parti si definisce larger
than life, uno che diventerà leggenda”.
In ogni caso, la fama di Faletti
si conferma con i successivi Niente di
vero tranne gli occhi (2004), romanzo dall’ambientazione noir ricco di crude descrizioni, e Fuori da un evidente destino (2006), che vira verso il soprannaturale e che porta un po’
a perdersi tra realtà e sogno. Dopo l’incursione nella narrativa breve con la
raccolta di racconti Pochi
inutili nascondigli del 2008, Faletti torna nel mondo del
romanzo con due capolavori nel giro di due anni: Io sono Dio
(2009) e Appunti di un venditore di donne (2010) rappresentano la
consacrazione come autore di bestseller. Il suo stile
penetrante, a volte oscuro fino a sembrare
indecifrabile ma mai noioso, le brevi frasi ad effetto, i flash back non
tradiscono le aspettative, soprattutto nel secondo libro, ambientato questa
volta non negli Stati Uniti ma in una Milano vintage e ‘tiratardi’, quella del
famoso Derby e degli anni di piombo.
Come se volesse prendersi
una sorta di pausa, Faletti pubblica nel 2011 Tre atti e due tempi, romanzo
dalla trama più malinconica: decide di cambiare tattica, come si fa nel gioco del
calcio e anche nel mondo del calcio, protagonista di questa storia. L’ultima
opera (2012) è Da quando a ora (un
libro autobiografico e due cd musicali) nel quale Faletti si mette a nudo, con
l’ironia e la tenerezza che lo hanno contraddistinto in tutta la sua attività
artistica.
La scrittura di Faletti scorre senza sforzo, non
ha intoppi, è elegante, si prende il tempo che le serve. Le storie non si
chiudono mai in modo banale, come a volte può accadere nei thriller. L’uso
delle metafore dà forza ad ogni singola immagine e il lettore è lì, nella mente
e nel cuore dei protagonisti, a scegliere con loro, con loro affronta il
destino, la crudeltà, l’amore, la morte e altre innumerevoli battaglie.
È tutto questo che, a mio avviso, fa sì che Jordan,
Maureen, Nessuno, Vivien, Russel, Jim, Jean-Loup,
Frank, Bravo, Carla, Lucio, Silver, non restino semplicemente ad aspettarci sul
comodino fino a sera o in fondo alla borsa in attesa di addolcire un po’ un
viaggio barboso. Al contrario, loro ci accompagnano durante la giornata:
Faletti li ha resi vivi, alcuni li ha resi persino nostri amici, di altri
ancora non sappiamo bene se amarli o odiarli, perché a dire il vero sono un po’
antipatici ma hanno quel non so che, mentre di altri siamo
sicuri, non ci piacciono proprio, e riusciamo a immaginarli tutti, il loro
aspetto ci è familiare come se ci incontrassimo al bar tutti i giorni.
“Le parole scritte sono segni neri
che camminano sul bianco, sono formiche messe in fila che procedono pagina dopo
pagina verso un posto che nessuno conosce”, scrive Faletti in Pochi inutili nascondigli: lui forse
però in quel posto era di casa, e ha tentato di farlo conoscere anche a noi.
se troppo ho immaginato e camminato
ma con occhi da sorprendere
e un cuore per comprendere
se mai
tutto quel che ho avuto
e se dovrò cucirmi addosso anch'io
lo strappo al velo di un addio
però
confesso che ho vissuto
ma con occhi da sorprendere
e un cuore per comprendere
se mai
tutto quel che ho avuto
e se dovrò cucirmi addosso anch'io
lo strappo al velo di un addio
però
confesso che ho vissuto
[da “Confesso che ho vissuto”, 1998, musica di A.
Branduardi, testo di G. Faletti]
Filomena Roberto
per “Cultura e dintorni”
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