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Ennio guardò l’orologio rosso e blu che ticchettava alla parete. Le sei e tre quarti del pomeriggio.
Faceva caldo nel Paesello e il sole faceva stranamente bella mostra di sé, appeso al cielo azzurrognolo come l’orologio alla parete bianca. Stava arrivando l’estate e lui, il sole, si prendeva gioco della stagione fredda ormai al tramonto e degli abitanti del Paesello che timidamente facevano capolino come ghiri reduci dal letargo, quasi increduli. Si prendeva gioco dei mesi avvolti nella nebbia che, forse, avrebbero ceduto il passo a qualche tiepido momento di gioia, magari a qualche serata in cui si potesse conversare fuori al pub senza interrogarsi sull’identità di un interlocutore avvolto nell’eterna foschia, sempre, quasi ogni sera di ogni maledetto anno.
Questo pensava lui, Ennio, mentre tamburellava con le dita sulla scrivania Ikea di compensato bianco, nuova o quasi, piena di polvere rappresa, capelli e macchie di caffè sparsi qua e là. Ennio tentò di riconcentrarsi e inforcò di nuovo il mouse, il maledetto aggeggio che non funzionava mai, da quando era piccolo, che aveva sempre tentato di sostituire con la tastiera, il puntatore o il touchscreen, senza successo.
A lui piaceva usare le mani. A molti altri nel Paesello piaceva usare le mani, ma principalmente per dare luogo a risse. A Ennio invece piaceva creare con le mani, plasmare la musica come argilla e dare suono ai segni che leggeva sul pentagramma, dare forma alla più incorporea e inafferrabile di tutte le muse. Glielo leggeva in faccia suo padre, che da giovane suonava il basso e gli insegnò i rudimenti della chitarra quando Ennio era ancora bambino, così potevano suonare insieme.
Ennio strimpellava da solo o con gli amici sulla chitarra Yamaha rossa che in qualche modo si era fatto prestare dallo zio per intercessione di suo padre, finché una sera alcuni ragazzi più grandi lo invitarono nel club dove provavano. Il club in realtà era una cantina che una vecchia alcolizzata aveva affittato per poche lire mensili. Era una specie di quartier generale: cene, feste di Capodanno, appuntamenti galanti, tutto insomma, inclusa la musica. Gli amici avevano montato un’essenziale strumentazione ed era nato quello che ribattezzarono Il Luogo, un posto dove potersi incontrare per fare qualunque cosa e trascorrerci anche intere giornate. I ragazzi cominciarono a provare un abbozzo di repertorio e decisero di chiamarsi, appunto, i Cavern.
Al Luogo doveva esserci una bella atmosfera e, si vociferava, anche una invidiabile collezione di damigiane di rosso paesano, alcune talmente vecchie e sinistre che nessuno aveva mai avuto il coraggio di avvicinarvisi. Incuriosito, Ennio entrò in compagnia di un suo amico, non ricordava neanche più chi fosse, forse per la nebbia. E fu così che la vide: una batteria X-Drum marrone, completa di charleston e tutto il resto. Fu amore a prima vista. Riuscì perfino a bere un po’ dell’inchiostro custodito nella più vetusta damigiana, superando la paura dei danni fisici e dell’ira della vecchiaccia. L’iniziazione era completata.
Aveva 16 anni. Imparò a suonare, studiò fino a farsi venire le vesciche sugli anulari e in breve tempo padroneggiava bene la quartina, la terzina, la duina, lo shuffle e il reggae beat. Questo gli permise di entrare senza sforzi nei Cavern nonostante gli anche tre o quattro anni di differenza con gli altri membri del gruppo. Provavano, suonavano in giro per locali e feste, spingendosi anche in paesi e cittadine vicine, fino a quella grande serata in cui i Cavern suonarono per la prima volta al Knak, un pub dell’Agglomerato.
Ennio rimase folgorato. La gente ballava sui tavoli, e poi il casino, le luci, i tipi strani. Una volta diplomato, si trasferì ed entrò al Conservatorio. Mise su un nuovo gruppo, Uncle Ernie & his Fuckin’ Funny Orchestra. Le serate si intensificarono: era difficile trovare un locale in cui non avesse suonato, una manifestazione del cui palcoscenico non avesse calcato le tavole o un musicista del giro con cui non si fosse incrociato almeno una volta.
Abbandonò gradualmente le asperità punk rock giovanili per l’influenza della musica classica che studiava con diligenza. Si diplomò brillantemente al Conservatorio come batterista e percussionista, ma suonava quasi perfettamente anche chitarra, basso e pianoforte ed era capace anche di dirigere altri musicisti.
Il successivo passo era nella sua testa un lavoro stabile e onesto nel campo che lui amava e continuare a divertirsi facendo serate qua e là, ma soprattutto ormai si sentiva cittadino dell’Agglomerato ed era lì che voleva vivere. Si ritrovò invece senza uno scopo, perché non studiava più e non riusciva a trovare un impiego qualunque che gli permettesse di vivere. Stavano finendo anche i soldi delle serate, perché ne trovava sempre meno, molti facevano storie per il pagamento e in generale andavano per lo più dj set e baby gang che facevano hip hop i cui componenti erano dei veri malviventi, sempre nella loro testa.
Ennio non ebbe scelta: fece la valigia e tornò mestamente al Paesello, maledicendo sé stesso, la batteria e quell’amara metropoli che l’aveva prima sedotto e poi sputato via come un seme di anguria. L’unico che riuscì a prenderla peggio di lui fu suo padre, che era al settimo cielo per i successi musicali del figlio e non riuscì a consolarsi nemmeno al pensiero di riaverlo a casa.
Così, senza soldi e senza sorriso, Ennio si ritrovò quella sera dei suoi scarsi trent’anni a lavorare al pc col mouse all’arrangiamento di un pezzo composto da Oskuro, l’effettivamente nebuloso rapper del Paesello, che coi suoi testi scomodi e il suo turpiloquio puerile gettava fango sulla società effettivamente retta da una classe dirigente che annoverava tra i suoi principali esponenti suo padre, noto medico di provincia e consigliere comunale di maggioranza. Era proprio lui che, facendo leva sulla necessità che un corrotto assessore aveva di mettere a posto un’amica, aveva premuto per riaprire il vecchio centro sociale nella cui sala macchine ora sedeva Ennio, litigando con quel coso con la coda che sapeva usare molto peggio di una bacchetta da direttore d’orchestra. Sul tavolo erano sparse tante cianfrusaglie, tra cui banconote. Con la sinistra ne afferrò una da 50 € e iniziò a giocherellarci stropicciandola, mentre tamburellava con la destra sul mouse. Era frustrato, spazientito, spento. Diede un colpo col mouse sul pad e lanciò la banconota contro il vetro della sala d’incisione, in cui nessuno incideva mai.
I soldi ricaddero mestamente sul tavolo e la porta si aprì.
- Bella frà.
- Ciao Oskù. - Ennio era sconsolato al pensiero di quel pantalone esagerato, quella felpa capuche e quell’aria di sfida, ma riuscì ad apparire più inespressivo possibile. Guardò appena gli occhi del suo giovanissimo interlocutore.
- Hai finito? - disse l’altro nel suo accento volutamente pesante, mischiando italiano e dialetto. - Io devo incidere il pezzo nuovo.
- Un altro? Aspetta, devo finire ancora la base di questo.
- Sbrigati però. Non posso aspettare.
- E dove cazzo devi andare, a chiedere voti per tuo padre, che già sarebbe qualcosa, o a comprare il fumo, ammesso che tu ci vada davvero e non solo nei tuoi testi di merda. - Ennio si vide dirlo, ma non lo fece.
- L’ho scritto stamattina. - incalzava l’altro. - Si chiama Faccio grane.
- Faccio?
- Grane.
- Ma non è italiano “Faccio grane”. Forse vuoi dire “pianto grane”.
- No no, faccio. Ennio, come suona il pezzo? Guarda che questo è il quinto album eh, dev’essere più maturo.
Ennio non fece osservazioni sulle pretese di maturità artistica di un diciassettenne.
- Ma non è che c’hai da fare?
- Ma che c’ho da fare, qua ormai ci vieni solo tu. Praticamente lo avete aperto voi e lo mantenete voi.
Oskuro non era certo di aver afferrato, ma ovviamente non lo diede a vedere. Non trovò niente di meglio da fare che prendere 100 € e sbatterli sul tavolo. Ennio non lo guardò nemmeno. Forse lanciò un’occhiata ai soldi, ma non a lui.
- Ti do di più se ti sbrighi. Che ti credi? Questi per me non sono niente.
“Madonna, ma che vuoi da me?”
- Ennio, ci vediamo domani, base pronta e che suoni bene, poi registriamo Faccio grane e forse un altro se lo finisco.
Ennio si girò e lo vide varcare l’uscio e richiudere la porta. Pensò ai Cavern, all’Agglomerato distante 100 chilometri eppure lontano anni luce, al Conservatorio, alle scale eoliche, alle misolidie.
- Ma che cazzo ci fa questo con tutti ‘sti dischi che gli stampo? Mio Dio, è il nuovo Frank Zappa, è il nuovo Frank Zappa!!!
Gridò, si agitò. La stanza non era insonorizzata, quindi chiunque poteva sentirlo. Ma come sempre c’era solo l’amica dell’assessore, che tornò a leggere il suo romanzo seduta alla sua scrivania, senza farci troppo caso.

continua

su di me

La mia foto
Ariano Irpino, Avellino, Italy
Antonio Oliva è nato nel 1985 ad Ariano Irpino (AV). Ha partecipato a numerosi progetti teatrali e musicali. Nel 2009 si laurea in Lettere Moderne e nel 2012 in Filologia Moderna presso l’Università Federico II di Napoli. Dopo diverse esperienze nel 2015 si abilita all'insegnamento presso lo stesso Ateneo. Ha lavorato a Roma e Bergamo e vive itinerando.
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