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Una volta addestrato alla bellezza
tutto il resto non regge il confronto,
lo sferragliare di queste strade,
la sabbia,
come noi, ma ora non voglio pensarci,
è un brivido
lungo la mia spina dorsale,
irregolare,
ma certo,
se per sopravvivere devo scrivere
e per scrivere devo vivere,
meglio se chiuso qui dentro con te,
senza soldi, senza tv,
in un turbine d’avorio
stando fermi sopra il letto,
uno per l’altra.

Faccio muro
contro gli altri,
in dialetto
stupirò
l’amore che mi hai dato e non mi hai detto,
la luce che mi serbi per domani,
così scendo dalle nuvole eccellenti
e volentieri mi incontro col contorno.

Cinque minuti e poi, e poi boh,
meraviglioso scrigno e rarità,
storie, abiti rosa,
sposa,
ballando di te mi parla
ogni minima scheggia d’amore
che da ogni brandello di mondo
affiora,
schizzami, e io troverò in ogni convenzione
la scusa
per celebrare una festa.

Vuoi vedere tutte le parole
che non sono ancora in grado di esalare?
Guarda nei miei occhi,
e io guarderò la luce,
e la luce diventerà i miei occhi,
e i miei occhi diventeranno ghiaccio,

e il mio cuore come il fuoco.

da "frantumi" e rivista "cultura e dintorni" n.1
napoli 2009
a

Da oggi "Frantumi" è in vendita in formato digitale su Lulu.com a soli 3€50 (metà del prezzo di copertina).

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Toni guardava la banca e la banca guardava Toni in quel momento, era intorno all’una, in cui anche un paesino si tramuta in una metropoli, con tanto di traffico, clacson, qualche incidente stradale e parecchie profanazioni. Era quasi ora di pranzo e tutti avevano una fretta indiavolata di tornarsene a casa, sia che avessero un lavoro, sia che lo stessero cercando, sia che semplicemente avessero passato la mattinata a zonzo, come quei magnifici vecchi che alle otto li trovi già al bar, e magari sono lì da ore, con una bella bionda in mano, e magari non è la prima. Ti fanno impressione, hanno occhi, volto e denti non in buono stato, ma a volte sono gioviali e ti suscitano molto più interesse umano di un banchiere pulitino.
Davanti a Toni procedevano vari banchieri di tal fatta. Pareva una rada marcia di fascisti sparuti, pensò Toni; il cervello dell’artefice aveva già pensato alla possibilità di scrivere qualcosa al riguardo, l’aveva già sistemata in un quadro narrativo coerente e aveva già cominciato a pensare al nome del protagonista, ma probabilmente non avrebbe mai scritto una sola parola su quello. Improvvisamente Beatrice s’intravide uscire dalla porta. Schizzò in tutta fretta nell’auto decappottabile, che lei aveva fortemente voluto comprare, e si sedette alla destra di Toni.
- Amore mio, che giornata! Dai, andiamo. - disse baciandolo frettolosamente sulla bocca e posando la valigetta, la borsa e uno sciarpino sul piccolo sedile posteriore. Toni fumava una Kim mentolata lunga e sottile con cui fu attento a non bruciare Beatrice. Spese le minori energie possibili per ripartire il più velocemente possibile senza apportare danni a niente e nessuno. Costeggiò la cattedrale, il campanile, attraversò la piazza principale coi suoi grandi e scivolosi sampietrini bianchi, dunque imboccò il corso principale diretto verso casa. Distrattamente posò lo sguardo sul Palazzo di Città, precisamente sul bar sotto il porticato dell’edificio, e pensò a suo nonno, che ci aveva lavorato tutta la vita. Guidava, fumava, pensava, piangeva anche, solo una lacrimuccia vicino a un occhio, ben nascosta dagli occhiali a specchio, ma poteva benissimo essere l’allergia.
Lasciarono in silenzio il caldo centro soleggiato. Poi Toni chiese:
- Tutto bene oggi? Com’è andata?
- Come al solito, tutto bene. - rispose lei da dietro i suoi grandi occhiali da sole. - Fa caldo, eh?
- Molto caldo, guarda qua! - disse Toni facendo un ampio gesto a indicare con la mano aperta la camicia altrettanto aperta. - Sono tutto sudato. Meno male che abbiamo la cabrio! - disse indicando la macchina. La amava, ed era reciproco. Lei gli regalava gli ormai pochi sorrisi della giornata. Non era da quel rapporto di coppia che derivavano i suoi problemi, né dalla convivenza, né dall’economia domestica o da qualsiasi cosa potesse imputarsi a quella ragazza. In realtà non sembravano venire da niente e da nessuna parte. Ma allora da dove venivano?, perché era evidente che aveva dei problemi.
- In realtà, c’è sempre quella storia lì… - disse Bea dopo qualche attimo di silenzio.
- Ah, già. Eh… - fu tutto ciò che riuscì a rispondere Toni, guidando e fumando. L’auto percorreva una ripida discesa, erano quasi arrivati. Toni guardò Bea, incrociò il suo sguardo. Senza dire nulla prese il cellulare e fece una chiamata.
- Mio caro, cosa c’è? - Dante Scarlatti aveva risposto con estrema rapidità e voce gioviale.
- Sempre quella storia alla banca… - disse Toni senza salutare.
- Uhm. Capito. Me ne occupo io?
- Sì… - disse Toni. - per piacere…
- Nessun piacere. Tu dici, io eseguo. Come va con l’editore? - disse Scarlatti parlando velocemente.
- Boh, prende tempo. - rispose Toni parlando lentamente.
- Latita?
- Per così dire…
- Uhm. Capito. Me ne occupo io?
- No, no! - si affrettò a rispondere Toni.
- Ok, ciao. Ah, buon appetito. - disse Dante riattaccando.
- Pure a te. - disse Toni al telefono senza linea, immaginando Scarlatti che mangiava uomini. Bea lo guardava.
- Le date? - domandò cambiando argomento. Erano arrivati.
- 15, 20, 25, 8. - rispose Toni.
- Sei contento? - disse Bea. - Sei una superstar.
- Lo ero anche quando mi hai conosciuto. - disse Toni.
- No. - disse Bea. - Ora lo sei.

La porta dello studio si aprì e Toni entrò. Era pallido, stanco, sudato. L’estate stava lasciando il posto al freddo che di lì a poco sarebbe tornato a cingere il paese con il suo nebbioso abbraccio. Già il giallo e il verde non dominavano più i campi, il parco e il piccolo centro storico, lasciando spazio al rosso di un autunno rosso come le gote e gli occhi di Toni, il quale si aggirava per lo studiolo con andatura fin troppo rapida e scattante per quanto appariva assonnato. In effetti era assonnato, ma non si trattava di una piacevole sensazione di stanchezza che preannuncia l’arrivo di un meritato sonno ristoratore; si sentiva come un sonnambulo febbricitante e gli pareva di avere le allucinazioni.
E le aveva: vedeva Scarlatti, l’editore, Rodolfo, la banca, il direttore raccomandato che a sua volta, tra una cagata e l’altra, raccomandava altri raccomandati da dietro la parete di vetro del suo ufficio tutto bianco, impeccabilmente pulito, soffocante, e indossava sempre una camicia bianca a righine blu.
Poi vide Beatrice, che lasciò stare per rispetto, e poi l’editore, il paese, la campagna, l’Agglomerato, vedeva tutto dall’alto e gli pareva di essere prigioniero di una specie di cupola o piramide. Si sentiva una pala eolica, costretto a girare, a produrre qualcosa di buono per il bene di chicchessia, certo non per il suo.
Ritornò con la mente alla città, si vide giovane, bello, povero e felice, soltanto un promettente scrittore e la sua musa, e poi certo i lettori, i club e i caffè dove passava la notte a creare, circondato dagli ammiratori. Era stato la migliore promessa non mantenuta della Bohème cittadina, lo studente più brillante della sua annata che non si laureò mai, il cuore pulsante più appassionato che fosse mai appassito stritolato dalle mani ossute del potere.
Ora aveva una vita tranquilla, cosa gli mancava? Era ancora giovane e bello, non era più povero e lavorava in continuazione, aveva realizzato il suo sogno di bambino e adesso la sua passione era il suo lavoro. Già, il lavoro. Il moderno “Timore e tremore”, il sogno e lo spauracchio della generazione precaria. Ma non per lui, scrittore di successo, apprezzato letto e seguito assiduamente in tutta la nazione, per ora. I suoi scritti si diffondevano tramite il web in ogni angolo del globo, di lì a poco sarebbero uscite le prime traduzioni all’estero. Era tutto quello che aveva sempre desiderato, bastava solo mantenere la calma… e invece…
E invece ogni giorno si rendeva conto di essere meno felice del precedente, ma non lo dava a vedere, in fondo era sempre stato un tipo un po’ strano. Solo Bea gli chiedeva ogni tanto come stesse, ma lui la rassicurava, le diceva quello che lei voleva sentire, la faceva stare bene e le dava sicurezza. L’unica differenza tra i due è che lei era davvero felice.
Si versò un bicchiere di bourbon e lo buttò giù d’un colpo. Poi un secondo. Il terzo lo sorseggiò più lentamente, seduto allo scrittoio. Il collo gli cedette improvvisamente e dovette lottare per non svenire, raddrizzandosi repentinamente e buttando all’insù la testa. Lo scatto gli procurò dolore e cercò di distrarsi accendendo il pc. Squilla il telefono.
- Pronto amore… sì, sono in studio… tutto bene, ero uscito a fare una passeggiata… una lunga passeggiata… so che è molto tardi, lavoro un po’ e ti raggiungo, ok?, comincia pure a piovere, sai che mi piace... no, lascia perdere, non ho fame… va’ a dormire, ok?... tutto bene, sì sì sicuro… no, non ho bevuto… cioè, sì, beh, un poco… no, non ho sentito nessuno… ah-ha… no no, nessuna novità, ma sta’ tranquilla… a dopo, buonanotte. Ti amo. Sta’ tranquilla. (Bacio) Ciao.
Rimase lì imbambolato a fissare un cellulare senza linea. Dopo 5 minuti digitò un sms e glielo mandò. Diceva: “Ti voglio bene.”
Sigaretta: una Maria y Juana, famigerata sigaretta guatemalteca. Erano stati molto felici. Fino al salto di qualità. Poi arrivarono le visite in piena notte, le correzioni, la censura. Si sentiva male. L'onorevole Dante Scarlatti per lui era qualcosa a metà tra il Tribunale dell’Inquisizione e un imperatore romano, e Toni era incapace di rifiutare, di dissentire, perfino di qualsiasi seppur velato atteggiamento di critica o fronda. Quella sicurezza gli aveva permesso di realizzarsi, di risolvere i suoi problemi e di raggiungere ogni suo obiettivo, ma aveva venduto sé stesso, tradito l’intellettuale indipendente che era, gli infuocati reading dell’Agglomerato, la sua giovinezza, sé stesso bambino.
Toni era ormai consapevole di essere un perfetto intellettuale di regime, il suo ormai autorevole nome serviva e propagandava un potere tutt’altro che umanistico, che tra l’altro stava uccidendo la sua terra insieme a tutto ciò che amava e in cui credeva. In cambio, poteva avere tutto quello che voleva. Si guardò nello specchio, gli capitò di nuovo di vedere sé stesso giovane e si fece schifo.
Sputò in direzione dello specchio senza riuscire a colpirlo, si diresse verso lo scrittoio e ripiombò sul seggiolone in legno. Guardò il foglio bianco sullo schermo del pc. Aveva sporcato tutto lo studio di sangue. Una sirena si udì in lontananza. Portò le dita rosse alla tastiera e scrisse:
Fine, finalmente.

Toni guardava fuori dalla finestra, ma non vedeva niente: il suo sguardo era perso nel vuoto. Il rumore del traffico, il rombo di una moto che di tanto in tanto percorreva il paese da parte a parte giù sulla statale, lo schioppettare ritmico e regolare, simile al trotto di un cavallo, delle auto che rimbalzavano sui dossi rallentatori nelle vicinanze. Di cavalli neanche l’ombra, non si vedevano più in giro neppure asinelli, ce n’era solo uno, di proprietà di un certo vecchietto che di quando in quando ancora faceva la sua comparsa la domenica mattina in piazza, davanti alla chiesa. Non c’erano i cavalli che trainavano le carrozzelle turistiche, non c’erano neanche quelli delle corse clandestine. L’Agglomerato era lontano, lontano quasi come il paese che Toni ricordava da bambino. Per un istante si ricordò di quel bambino, vide la sua faccia e si spaventò, ma era troppo stanco per non ricadere subito dopo in quel limbo psicofisico che chiamano stress.
Aspirò una lunga boccata dalla sua sigaretta, distrattamente. Non era semplice concentrarsi, non era semplice far nulla in quel posto dove non si aveva nulla da fare e mai il tempo per far nulla. Cosa facessero i paesani tutto il giorno era un mistero per Toni. Finalmente riuscì a concentrare lo sguardo su qualcosa: l’orizzonte, segnato da tante lucine rosse intermittenti. Pale eoliche e pannelli solari dovunque. Energia pulita, pensò, ed economica. Ma prima qui era tutto buio, vedevi solo lucine lontane, bianche, gialle, verdi, e credevi fossero tutte case di gente che ti vede come una lucina gialla. Non rimaneva che il filtro. Toni spense la Marlboro al mentolo nel portacenere ricavato dal guscio di una noce di cocco (in cui un tempo risiedeva un gelato al cocco).
Aveva scritto soltanto poche parole, poche quasi come le ore passate seduto lì. L’elegante seggiolone in legno col cuscino verde era diventata una sua appendice e lo controllava, impedendogli di alzarsi quasi gli pesasse. Doveva andare in bagno ma non se ne curava. Continuava a scarabocchiare disegnini inutili, o a fissare il pc, inerte, selezionando cose a caso sullo schermo, un’occupazione del tutto pleonastica, tuttavia priva di qualunque impegno.
Squillò il cellulare. Toni lo prese, lesse il numero e abbozzò un mezzo sorriso. Tuttavia non sorrise, né rispose, né ebbe altre reazioni, lasciando che il cellulare facesse da sé e smettesse di suonare. Lo ripose nel porta-telefono a forma di pallone bianco e azzurro e si mise a scrivere una parola, poi un’altra e un’altra ancora, tutt’a un tratto pareva ispirato.
Trascorsi dieci minuti aveva scritto qualche pagina, quando qualcuno citofonò. Si bloccò e rimase immobile, ma non teso, solo fermo e in silenzio. Sembrava di nuovo scoraggiato come prima. Nuova citofonata.
- Avanti, è aperto.
La porta si aprì e ciò che ne entrò non venne accolto da Toni in modo festante. Il professor Scarlatti si tolse l’impermeabile e lo mise sull’attaccapanni. I due non si guardavano e non aprivano bocca, quindi Scarlatti si sedette di fronte a Toni ed esordì:
- Come andiamo?
- Non andiamo.
- In che senso? - chiese meccanicamente il professore.
- Nel senso che oggi ho scritto solo un poco.
- E va beh, meglio di niente… - sorrise Scarlatti alzando in aria la mano destra come a dire “che te ne frega”. Si sistemò gli occhiali. - Hai sentito dell’incidente?
Toni sgranò leggermente gli occhi. - C’entri qualcosa?
- Per chi mi hai preso?
- Per Dante Scarlatti.
- Ah, allora siamo a posto. - rispose l’altro, calmo. Ci fu un nuovo momento di silenzio correttamente interpretato da Scarlatti come un’attesa. - Copiami tutto. - disse gettando sul tavolo un driver usb. Toni eseguì senza fiatare. - Poi vado, - aggiunse il professore accendendosi una sigaretta. - sono in piedi dalle 6 e ho un appuntamento.
Toni non chiese con chi era l’appuntamento, gli scappò solo un piccolo cenno, come a dire “prego, fuma pure nel mio piccolo studio in affitto dove veramente non dovrei fumare neanche io!”. Ridiede l’usb a Scarlatti che se lo mise in tasca.
- Ora vado. Buon lavoro al mio artista. - disse Scarlatti stringendo il polso di Toni. Quella mano minuta assomigliava a una manetta. Toni fece un gesto distratto di saluto. Scarlatti riprese l’impermeabile, lo indossò e uscì in strada con passo spedito e leggermente baldanzoso, cosa che non sfuggì a Toni, il quale rimase dietro il suo scrittoio, a fissare un virtuale foglio bianco, solo. Il sangue gli ribollì nelle vene e gli venne voglia di imprecare e bestemmiare, al limite rompere qualcosa, non dico sfasciare tutto, per carità, ma almeno spaccare un vaso, una cosa così. Invece gli uscì solamente un insulto a mezza bocca. Era: - Dannazione.

Il sole tramontava davanti a Toni in direzione del mare oscurato dai monti violastri. Le nuvole producevano sbuffi grigiastri sopra di essi, e più su ancora esplodevano in funghi atomici rosacei. Davanti a lui si estendeva campagna a perdita d’occhio, solo alcuni elementi gli ricordavano il secolo in cui si trovava: la grande soprelevata, la grande fabbrica e le centrali eoliche. Diede un’occhiata al cellulare, una boccata alla Marlboro Blend 29 e un pensiero a lei, e allora si ricordò di non essere più bambino.
I paesini circostanti si abbarbicavano su montagne e colline, vi erano arroccati o vi formavano graziose corone. Una calda e leggera brezza estiva lo investì e l’ultimo sole lo abbagliò, ma neanche tanto. Toni lo guardò svanire piano piano dietro l’orizzonte frastagliato come non faceva da tempo. Un brivido lo investì, un brivido subitaneo. Incredibile. Lui era uno scrittore, eppure quella era una situazione così insolita per lui. Insolita come la lacrima che gli fece brillare un occhio.
- Carissimo!
Il brivido era sparito e Rodolfo era arrivato. Rodolfo gestiva il Senzatempo, il locale alle spalle di Toni. Il sole non c’era più, il mare non si vedeva e lui non se lo ricordava quasi più. C’erano i monti, la campagna, le luci, il burrone, la ringhiera, poi c’era Toni alle cui spalle c’era Rodolfo e c’era il Senzatempo, c’erano il paese e la vita di Toni, ma Toni era così in alto che poteva vedere per chilometri, e per poco da dietro le sottili lenti transition non vide la sua vecchia vita.
Toni non sapeva se e cosa dire, e per uno scrittore questo è veramente imbarazzante.
- Uè caro.
Meglio di niente, almeno non passò per pazzo.
- Ti senti bene? - chiese Rodolfo. - Sei paonazzo.
- Tutto bene, tutto bene. - rispose Toni aggiustandosi gli occhiali. - Allora?
- Allora che? Tutto a posto, la data è confermata, i musicisti pure, ci sarà un bordello di gente, come sempre del resto: è agosto e tornano tutti qui.
- Tutti quelli che non ci vengono mai.
- Non essere così duro, Toni: ci sono anche Natale e Pasqua.
Toni ridacchiò.
- Dai artista, ti ho fatto ridere! - sghignazzò Rodolfo. - Sul serio, c’è qualcosa che non va? Come ti senti? Dimmi la verità.
- Devo dirtelo, mi sento abbastanza bene, davvero. Può anche darsi che sia il caldo, o che abbia bevuto più del solito, o dormito di meno, onestamente non lo so. Ma me lo godrò tutto. - disse Toni. Rodolfo lo amava, o lo sfruttava, o lo odiava, non ne era sicuro.
- Ti conosco da troppi anni. - disse Rodolfo.
- Da troppi per pensare che te ne approfitti. - fece Toni.
Una nuvola passeggera fece cadere sui due amici poche gocce di pioggia di discrete dimensioni.
- Merda! - gridò Rodolfo. - E se piove? Dai, no, non me lo può fare, mannaggia quel porco!
Non si è mai capito di quale porco si tratti, perché i più timorati sostengono sempre di riferirsi al brutto tempo, i più trasgressivi ad altro.
- Non lo sai che qua il clima è diventato quasi equatoriale? - disse Toni accendendosi una sigaretta distrattamente con due mani, riparando la fiamma dalla brezza. - Colpa dell’inquinamento forse, o del riscaldamento globale. Della discarica. Che ne so.
- Scrivici qualcosa. - propose Rodolfo.
- No. Meglio di no.
- Ho capito. Come la vede un artista della tua esperienza? - cambiò argomento Rodolfo, anch’egli provvisto di notevole esperienza. Il locale già cominciava a riempirsi di gente in cerca di un sostanzioso aperitivo. Rodolfo indicò un gruppetto che scendeva le scalette: si dirigevano verso la loro postazione e parevano già alticci. - Sarà un pubblico difficile?
- Non esiste un pubblico facile Rudy, è già tanto se esiste un pubblico.
- Sei un grande, Toni. - disse Rodolfo. Era quasi buio.
- Lo sei anche tu. Non è facile nemmeno quello che fai qui.
Rodolfo gli mise una mano sulla spalla: - A presto.
Non parlarono di soldi.

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L'estate finisce troppo presto,
cammino sempre su un tappeto
ma le nuvole sono foglie
mangiate dal marrone
ora che la neve della nostalgia
scende sulla primavera della vita
che passa col suo piccolo bagaglio,

un rapporto che non ho mai avuto,
mai cercato.

Quando l'albero si spoglia,
l'estate non c'è più.

31/08/2012

su di me

La mia foto
Ariano Irpino, Avellino, Italy
Antonio Oliva è nato nel 1985 ad Ariano Irpino (AV). Ha partecipato a numerosi progetti teatrali e musicali. Nel 2009 si laurea in Lettere Moderne e nel 2012 in Filologia Moderna presso l’Università Federico II di Napoli. Dopo diverse esperienze nel 2015 si abilita all'insegnamento presso lo stesso Ateneo. Ha lavorato a Roma e Bergamo e vive itinerando.
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