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5

- Guarda l’Isola.
- È bellissima.
Il sole tramontava e le nuvole erano rosa e il cielo violetto.
- Sai che lassù c’è un castello? Un giorno ti ci porto.
- Magari.
Il mare era una tavola nonostante la brezza autunnale. C’era gente che passeggiava, ragazze in rollerblade e ragazzi sullo skate che si atteggiavano a gang del Bronx. Ma era solo il solito Agglomerato che faceva promesse che non poteva mantenere, che vedeva volgere al termine un altro giorno e svegliarsi un’altra notte. I ragazzi diffondevano musica e sfoggiavano undercut all’ultima moda straniera. Tatuaggi, canottiere e shorts anche se cominciava a fare freddo: ognuno doveva apparire più focoso dell’altro. Ma non c’era il Bronx, e neanche qualcosa di simile: il Lungomare è una zona piuttosto in.
- Domani quando vai in ufficio?
- Che ne so. Quando voglio. Come al solito. - Sorriso.
- Bene. Andiamo al cinema.
Patrick aveva i capelli corti e scuri e mossi, pettinati di lato con un po’ di gel. La camicia aperta, il maglione sulle spalle e un filo di barba, ma sulle guance no. I costosi jeans non raggiungevano i suoi malleoli e i mocassini marroni erano tristemente orfani di calzini.
- Lo sai che mi annoio. - sbuffò. – Mica è Natale.
- Mica è il circo. È il cinema. Ora escono i film più belli.
- Mh.
Eleonora non si sognò di nominare il teatro come avrebbe voluto. “Che cazzo blateri a fare di isole e castelli se poi devi uscirtene sempre con queste idee da zotico?” Lei era splendida come il giorno prima e quello dopo e quello dopo ancora. Capelli biondi al vento protetti dal baschetto nero, guance morbide come un marshmallow, rossetto scarlatto sul sorriso svanito. Indossava un vestitino bianco e nero stretto in vita che terminava in una gonna ariosa decisamente retrò sopra i sandali con un leggero tacco. Le calze color carne e il coprispalle la proteggevano dalla stagione fredda che stava arrivando.
- Va bene. Allora scegli tu.
- Ape?
- Ok. - fece lei, trattenendosi dal rispondere “Maya”.
- Vieni, ti porto in Riviera. - disse Patrick piuttosto teatralmente cominciando a camminare come se fosse già entrato in un locale per ricchi.
Eleonora si accese una sigaretta.
- Ti fa male.
Eleonora buttò meccanicamente la sigaretta intonsa tra gli scogli su cui le onde placide si infrangevano piano con rumore rilassante, regolare, rassicurante. Tutto ciò che lei non era.
- Andiamo.
- Sì. Comunque sono stata bene. – disse Eleonora cercando di sciogliere i nervi, ed era sincera.
- Anch’io. - Il suo principe la baciò.
Il venticello agitava vistosamente le cime degli alberi sulla villa comunale ora. I bambini giocavano, le biciclette passavano, si stava molto bene senza macchine e col bike-sharing. Turisti, pescatori e grandi imbarcazioni all’orizzonte: tutti sembravano voler veleggiare lontano da quella città ora così apparentemente tranquilla, e accendevano le luci a bordo.
Costeggiarono il lungomare e fecero per attraversare in direzione della piazza.
Una bimba se ne stava tutta sola spalle al mare, sporca, scarmigliata, con indosso vestiti a casaccio e un volto inespressivo.
- Guarda. - Il tono di Patrick era tra lo sprezzante, il pietoso e il non realmente interessato. - Stai seguendo? Quando la smetteranno?
- Quella è rom, non c’entra niente. Tu stai seguendo?
La risposta non ci fu, ma tutti la conoscevano.
Drin.
Drin.
Drin.
Si udì solo questo, e poi un botto sordo, quasi un’esplosione.
La mattina seguente Gennaro Brighi, uno degli imprenditori più affermati dell’Agglomerato, non vide il suo rampollo Patrick presentarsi in azienda, al mobilificio Brighi, a che ora voleva lui, né vide i suoi mocassini né i suoi calzini, che comunque non ci sarebbero stati, perché in quel tardo pomeriggio di novembre Marino Pappalardo, l’affermato scrittore dell’Agglomerato che non scriveva più, armato di canottiera, zoccoli, costume da bagno, molla per i capelli e soprattutto di bicicletta noleggiata gratis, con lo sguardo fisso sul bersaglio e senza alcuna espressione sul volto, nel bel mezzo del viavai del Lungomare, lo aveva investito a tutta velocità.
Il ricco rampollo giaceva a terra, e il terrore e la sorpresa erano forse più grandi del dolore provocato dalla botta pazzesca al fianco, la spalla lussata e i jeans strappati. Marino era atterrato in piedi, con la bicicletta in mano. Eleonora era sotto shock, come anche il resto degli astanti. Solo la bambina sembrava non aver notato nulla di strano. Nessuno proferiva parola. Improvvisamente Marino vide la bambina.
- Ancora? - disse con fare di rimprovero. - Quando la smetterai?
La sistemò sul sellino. - Sbrighiamoci che mi scade il tempo.

La strana coppia sfrecciò verso la Zona Est tra la folla allibita. La ruota davanti era storta, ma i due arrivarono a destinazione, la bici fu resa in tempo e non ci furono lamentele perché il Comune ha sempre altro a cui pensare.

continua...

E c'era un bel profumo di mare quella sera
proprio mentre il plotone si preparava
e intanto tu eseguivi il tuo bel canto
ragazza uomo macchina o fratello
ma giocavi tirando in aria note cuori sassi
ma cantavi solo nella mia testa
sono io che parlo senza aver capito
ma ho capito cosa passa e cosa resta

sono io il Pescatore delle Lune d'Amianto
solo se mi spingo fuori divento vero
e mostro quello che ho pianto.

roma 20.11.2015

4

- Ma non avevi una decappottabile? - disse la voce dall’accento inglese.
Anche in un periodo più tranquillo di quello, che tranquillo non era, Marino non avrebbe mai accettato un affronto, seppure involontario o velato, alla sua cavalcatura, una Fiat Panda Trekking 4x4. Ma la ragazza che gli sedeva affianco durante la traversata notturna, proprietaria di una canotta, un paio di shorts sopra un paio di gambe scure, e dopo quelle gli infradito, nonché dell’accento inglese non marcato, non leggero, semplicemente gradevole, aveva saputo in qualche modo meritare di evitare quegli occhi piantati in faccia, e pareva esserne consapevole.
- Che ne sai tu della decappottabile? - disse Marino senza staccare dalla strada gli occhi piuttosto stanchi. Fu lei a guardarlo con gli occhi all’insù, senza rispondere.
- Dov’è?
- Non c’è più. C’è questa, una macchina operaia vecchio stampo. Se non ti piace scendi. - disse Marino, però poi sorrise, affinché lei non lo prendesse sul serio, cosa che non avvenne.
- Bella, ma quella era meglio. Devi essere un culturista solo per sterzare.
- Hai ragione. Tra poco arriviamo.
- Non vedo l’ora di vederlo.
- Maury o il Paesello? - chiese Marino.
- Che domande! Il Paesello.
- Non ti aspettare granché.
- Da Maury o dal Paesello?
- Che domande! - Marino si voltò appena, imitando, ma in modo impercettibile, l’accento di lei. - Da nessuno.
- Dai, sorpassa alla destra del tuo passato, di tutti i locali in cui sei stato.
Marino non si impressionò. Ne fu moderatamente contento, questo sì. Aveva scorto nella borsa della ragazza quel libro. Lei lo estrasse e lo sfogliò. Marino si ricordò di essere se stesso guardando il nome in copertina.
- Che si dice a Delhi?
- Niente. La chiamano Delhi perché non c’è nulla di nuovo.
- Pensa solo che stiamo andando al Paesello. E poi, Gilda, la conosco meglio di te Delhi.
- E come? - chiese Gilda, ed era sincera. Marino la guardò con gli occhi all’insù. Gilda non sostenne lo sguardo e lo abbassò sul libro, seria, la bocca socchiusa. - Quante cose hai fatto per noi.
- Quante cose ho fatto. Se le sapessi tutte, saresti qui? E voi, quante ne avete fatte per me?
Gilda ebbe un sussulto e si girò: - E questo che c’entra? - disse. - Nessuno ti ha mai chiesto niente, né ha mai detto che sarebbe stato facile. - argomentò ferma. - Ma cosa puoi dire alla mia comunità? - chiese poi con tristezza.
- Niente. Brava. Risposta esatta. - disse Marino lasciando bruscamente l’autostrada. L’umidità appannava il parabrezza, il vento scuoteva gli alberi.
- Fa fresco. - commentò Gilda.

Le scale portavano a un appartamento e l’appartamento portava direttamente nel mondo della Bohème di paese. C’era una gran confusione, le lampade alogene diffondevano luci soffuse, l’odore e l’igiene non lasciavano presagire molto di buono. La cucina, specialmente, era a soqquadro, c’era qualche avanzo sparso qua e là e le mattonelle marroni erano molto sporche. Sia nella zona giorno che nella zona notte, vagamente separate da una pesante porta a soffietto, erano sparsi indumenti, carte, cianfrusaglie di ogni tipo. La lavatrice era sommersa di panni ed emanava un discreto odore di muffa. Un'altra cosa che colpiva l’olfatto era il ben chiaro aroma di marijuana.
- Ma vivete qua dentro, così? - disse Marino varcando la porta socchiusa.
- Ma che cazzo dici. Solo lui e non sempre. - La voce apparteneva ad Andrea. Leggermente sovrappeso, leggermente canuto, leggermente claudicante, ma sempre il solito Andrea col solito sciarpino colorato al collo.
- Omosessuali maledetti. - fece Marino guardandolo negli occhi mentre la sua compagna posava lo sguardo stranito su quello spettacolo. Andrea lo spinse leggermente, poi si abbracciarono.
- Magari, - commentò poi afferrando una bottiglia di tequila. - e poi sai che pacchia, con tutte quelle checche isteriche radical-chic della minchia. Quanto lavorerei eh?, dimmelo. - Bevve.
- La recitazione è delle lobby di sinistra e lo abbiamo sempre saputo, peggio per te. - disse Marino prendendo la bottiglia. Raggiunse un tavolino di vetro carico di ogni ben di dio, prese un bicchierino pulito, versò la tequila e nel farlo aggiunse: - E modera il linguaggio ché c’è una signora.
- Lo vedo. - Andrea gettò uno sguardo furbetto a Gilda che sorrise. Poi Andrea guardò la grande custodia che Gilda portava a tracolla. - Nikon. Fotografa, eh?
- Beccata! - sorrise lei.
- Piacere, Andrea. Non sei di qui?
- Gilda. Sono nata nell’Agglomerato, i miei sono indiani.
Andrea guardò Marino sempre col solito sorriso: - L’hai presa a Delhi.
- Nessuno ha preso nessuno, - disse Marino accendendosi una sigaretta e sorseggiando. - non è con te che deve parlare.
- Peccato. - disse Andrea. Gilda cercava di apparire rilassata e sicura, cosa che non era; Marino era impassibile. Posò il bicchiere vuoto e si diresse verso la zona notte, seguito dalla ragazza.
La luce della lampada era giallastra, le tendine violacee, le pareti di un arancione sbiadito. Al centro della stanza, avvolto dal fumo, Maury sedeva al pc presso un tavolinetto di legno, e fumava. Gilda tossì. La prima cosa che la colpì di quell’individuo all’incirca trentenne fu la sua sbalorditiva magrezza. Maury alzò lo sguardo, la squadrò bene, non sembrava molto presente. Senza degnarlo di uno sguardo disse a Marino:
- L’altra era più alta.
- Lo so.
- L’altra era più magra.
Gilda guardò Marino con un’espressione smarrita e avvilita.
- Lo so. Vuoi dirle anche che era più bianca? Era una modella!
- E lei invece? - Maury vide la borsa. - Ok. Di dove?
- Delhi. - disse Marino prima che Gilda aprisse bocca per ripetere quanto già detto prima. La guardò e i suoi occhi scrissero nel suo cervello “Fai fare a me, sta fuori.”
- Indiana! Dove sono i nostri marò? - Maury la guardò con un tale sguardo da pazzo che Gilda quasi lo prese sul serio. Non era cresciuta in acque tranquille, ora era in un maledetto paesino, perché tremava? Maury aspirò nervosamente e le spruzzò abbondante fumo in faccia. Gilda prese il braccio di Marino.
- Brutto idiota. Accendi quello che ti rimane in testa o me ne vado.
- Ok, ok. Mandami qualcosa. Ti avverto però, se questo pazzo ti ha… - Marino lo guardò aggiustandogli il tiro: - …ehm, portato qui… in cerca di magheggi, sei nel posto sbagliato. Insomma, guardati intorno, sei in questo buco, neanche le blatte entrano più qua dentro, ti aggrappi a uno scrittore che non scrive più, e tanto meglio per te, perché di là c’è una specie di attore fallito…
- Vaffanculo! - gridò Andrea dall’altra parte, non distogliendo l’attenzione dalla tv. - Bella roba di là, un grafico da quattro soldi che ha abbandonato l’Accademia, sei patetico!
- Lo siete tutti e due. - disse Marino. - Finitela. Voi due potreste combinare qualcosa di buono. Lei è brava. Tu lo eri. Comunque sia, noi ce ne andiamo.
- Va bene, va bene. - fece Maury. - Come no. Sicuramente. - Entrambi spensero le loro cicche nel portacenere. Guardò Gilda e parve sincero quando disse: - Scusa.
- Figurati! - sorrise lei, più sicura, sincera a sua volta.
- Non vi reggete in piedi. - commentò Marino, forse con malignità. Si appoggiò al comò di legno e si sistemò la giacca. - Se faccio la media ottengo due persone di peso normale.
Questa volta non ci fu risposta.
- Andiamo. - disse Gilda. - La macchina operaia vecchio stampo scalpita.
- Anche io, - rispose Marino. - guarda com’è ridotto questo posto.
Maury tornò a sedersi con non poca fatica. Andrea entrò sgranocchiando popcorn. Marino si trovò in mezzo ai due, li afferrò improvvisamente e contemporaneamente per gli avambracci:
- Dovete tornare. E non da soli.
Fece per uscire.
- Aspetta! - disse Andrea, un po’ scosso, trattenendolo. - Gilda, facci una foto!
I tre si fermarono e Andrea si aggiustò i capelli. Gilda cominciò ad aprire la custodia, ma si fermò e li fissò. - No. - disse. - Manca qualcuno.
- Ora andiamo veramente. - sorrise Marino. - E mi raccomando, continuate a non scambiarvi alcun contatto, tanto c’è Pappalardo che sa tutto a memoria.
Uscirono. Andrea e Maury si guardarono. Maury prese il cellulare e inoltrò una chiamata.
- Pronto?
- Torniamo.


Quella sera Marino e Gilda fecero l’amore nella macchina operaia, nel quartiere indiano di Delhi, periferia est dell’Agglomerato, in una notte folle né più né meno delle altre. E fu l’ultima volta.

continua

...please leave a comment...

Sì hai ragione sei migliore di noi
specialmente quando taci quindi mai
ti vedo espanderti a ogni angolo di via
sento l'odore tuo pei boulevard

caldo era oppur pioveva
non ricordo più
chissà se c'entra davvero
non importa, non importa

seguimi conducoti in terre sconosciute
impertinente umiltà
guardami officiare su altari sconsacrati
non ti hanno mai invidiato

caldo era oppur pioveva
non ricordo più
chissà se c'entra davvero
non importa, non importa

amico che parole, piuttosto conoscente
anzi più che altro sei tu a conoscer me
e tutti gli altri depongono le armi
mi fingo uno di voi

Caldo era oppur pioveva
non è vero più
non ci siamo mai incontrati
non è stato, non è stato.

Ariano 31.10.2015

3

- Finalmente Alessandro, eccoti.
Si alzò reverente, portando indietro la sedia con la mano, come un marmocchio delle elementari quando entra il direttore. Lo guardò e davvero non seppe che dire.
Conosceva da anni il professor Perone, ciononostante non riuscì a capire cosa volesse da lui, perché l’avesse fatto venire proprio quel giorno. Al telefono sembrava urgente.
Alessandro Pacella non sapeva cosa ci facesse lì, né quel giorno né altri giorni. L’unica cosa che aveva sempre saputo è che voleva fare l’insegnante, all’università, e gli piaceva la filosofia fin dal liceo, fin dagli anni in cui i compagni gli affibbiarono il soprannome Lex per via della precoce calvizie.
Conseguì la laurea triennale con una media non brillante ma in compenso appassionandosi alla materia, entrando in contatto con un sacco di gente e passando attraverso numerose esperienze. I suoi vent’anni gli davano l’energia per studiare di giorno e vivere di notte e metteva in tasca un esame dietro l’altro.
Il lieto fine, traguardo di tre anni di studio, non fu che il preludio a una nuova iscrizione: corso di laurea magistrale in filosofia morale. Un suo ex docente e ben presto ex amico gli additò il maestro da seguire: il professor Perone, filosofo e pedagogo di chiara fama. Fu per Alessandro l’inizio di una lunga e frustrante frequentazione con l’immoralità della filosofia morale. Perone lo prese sotto la sua ala protettrice, pretese da lui sempre il massimo impegno, che il ragazzo mai lesinava, durante lezioni, seminari, barbosissime conferenze che vedevano il nostro impegnato nella difficile impresa di tappare le sedie vacanti, invero numerose, con il proprio deretano o con quello dei più pazienti amici e parenti. Agli esami, lungi dal favorire il suo pupillo, pretese da lui il triplo degli sforzi richiesti agli altri studenti, con i quali non era comunque tenero, regalandogli un terzo delle soddisfazioni. Ma lui era il suo protetto, proclamava il barone del pensiero disquisendo coi colleghi, influenzandone i giudizi con la sua autorità.
Lex aveva perso la sua proverbiale giovialità e la voglia di avventure, o semplicemente non ne aveva mai la forza; peraltro il suo effettivo valore non era più chiaro nemmeno a lui. Riuscì faticosamente a raggiungere l’ambito 110 cum laude finale e si disse che finalmente il peggio era alle spalle. Avrebbe di certo raccolto il frutto di tanta fatica e avrebbe cominciato la sua carriera accademica col dottorato di ricerca. Inutile dire che i magheggi accademici lo vollero primo in graduatoria dopo l’ultimo borsista. Che tradotto in italiano significava assunto per tre anni a zero euro al mese senza alcuna garanzia per il futuro. Dovette anche presentare sperticati ringraziamenti al professore, - perché sai, tu sei tu, ed è stata un’impresa per me tenerti qua, e non mandarti da qualche collega, perché sai, il paese è piccolo, la gente mormora… ma sai, io a te non voglio rinunciare.
“Ma sai, perché rinunciare allo schiavo gratis?” pensò allora Alessandro che cominciava a capire le regole del gioco, ma non lo disse.
D’altronde, che colpa ne aveva? Suo nonno zappava ancora la terra giù a Cerere, alle pendici del Monte, poco fuori città. Certo, non viveva più del suo lavoro come un tempo, ma produceva un vino prelibato e appariva molto più in forma del suo sgualcito nipote. A volte Alessandro pensava alla nonna e se la immaginava ancora lì al casale, a vegliare invisibile sul vecchio Pacella. A volte si vergognava un po’: aveva sacrificato soldi tempo e gioventù, aveva dedicato tutto se stesso a rincorrere il suo sogno, un sogno tutto sommato da bravo ragazzo, aveva rinunciato alle vecchie follie e si era messo a tirare la carretta pesante su per la salita, come diceva suo nonno. Ma dopo tanto sgobbare, cosa aveva in tasca? Chissà se e quando avrebbe visto il primo stipendio.
- Che cazzo fate qua? È ancora aperto questo cesso?
Alessandro abbandonò repentinamente le sue riflessioni. Andrea Torti, l’uomo del popolo, aveva fatto evidentemente il suo ingresso nello studio. Intendiamoci: l’uomo del popolo non è un incivile, né tantomeno un ignorante. Andrea Torti veniva davvero da una famiglia poverissima e si può dire che nell’accademia c’era praticamente nato: era venuto al mondo una cinquantina scarsa di anni prima in una topaia di fronte all’università. Un’intelligenza acuminata, una ferrea determinazione e un carisma fuori dal comune l’avevano portato alla cattedra di letteratura italiana ancora giovane, facendone l’affabulatore del giro. Gli studenti lo amavano e le studentesse, pareva, pure. Alessandro aveva, come tutti, grande stima di Torti, ne ammirava i modi sciolti, la personalità istrionica e la lunga barba bionda e spesso confessava a se stesso di aver puntato sul cavallo sbagliato, ma Se Stesso non lo stava mai a sentire perché aveva imparato a neutralizzare di questi pensieri. Si grattò la testa.
- Ah, ma tu qua stai? Povero figlio, che ne vuoi fare? - tuonò Andrea Torti guardando Stefano Perone con i suoi occhi azzurrissimi, pungenti e inquisitori come un tribunale del popolo.
- Saranno affari miei, trovatene uno tuo. - disse Stefano Perone sistemandosi una delle tre ciocche di capelli grigi che gli rimanevano dietro la nuca, la quale era già perfettamente al suo posto.
- Tu qua dentro tieni i cinesi Stè. - disse Andrea Torti mostrando un sorriso sotto i lunghi baffi a punta. - Sei un bastardo capitalista borghese.
- E comunque, - disse Perone, ma dovette sporgersi oltre la porta dello studio e alzare la voce perché l’altro aveva già ripreso a incedere col suo passo spedito da galletto verso chissà quale nuovo orizzonte. - “questo cesso” resta aperto un altro mese e mezzo!
- Buonaseraaa!
Si beccavano certo, ed erano diversi, ma infondo li univa antica amicizia e stima reciproca, e anche la loro eterna contesa politica era più leggenda che realtà.
Il professor Perone sospirò e si sedette. Diede due o tre colpi alla scrivania con la punta delle dita, poi volse lo sguardo assente su Alessandro. Era visibilmente sudato nella sua camicia a manica corta.
- Allora, che dicevamo?
- Niente professore, mi ha fatto chiamare per…?
- Ah, sì sì. - disse Perone. - Stai studiando?
- Sì, certo, infatti stavo…
- Ma il pezzo lo stai preparando?
- Ma certo prof.
- Vedi che è importante, dobbiamo parlare e… che ore sono?
- Le dodici e venti professore, devo andare a studiare.
- Eh infatti. Senti Alessandro, io te lo devo proprio dire: ma che diavolo hai combinato?
Lex cadde dalle nuvole. - Cioè? Cosa professore, non… non capisco…
- Samantha! Cioè sì insomma, Fosfori Samantha, primo anno, modulo monografico sull’abate Galiani. - disse Stefano Perone, la cui memoria sembrava rinvigorire di colpo in vista di donne e filosofi pervertiti. - Me l’hai bocciata!
- E dunque? - Alessandro aggrottò le ciglia, visibilmente incredulo.

- Ma come dunque?! Non lo sai che Samantha è amica della mia ragazza?

continua

La città è una mela
e io il bruco,
le foglie se le porta via il vento,

non fingiamo di non sapere,
siamo foglie,
a Napoli si brinda
e poi Roma, Milano e Venezia
e qualcuno La Spezia,
mangeranno i nostri colori
d'altri tempi,
niente no niente sì,
mi è venuta così,

un nuovo grande frutto
nel cui sud passeggiare la sera,
nuovi vasi da riempire,
pensi quante vittime quassù.

Roma 2.10.2015


2

Ennio guardò l’orologio rosso e blu che ticchettava alla parete. Le sei e tre quarti del pomeriggio.
Faceva caldo nel Paesello e il sole faceva stranamente bella mostra di sé, appeso al cielo azzurrognolo come l’orologio alla parete bianca. Stava arrivando l’estate e lui, il sole, si prendeva gioco della stagione fredda ormai al tramonto e degli abitanti del Paesello che timidamente facevano capolino come ghiri reduci dal letargo, quasi increduli. Si prendeva gioco dei mesi avvolti nella nebbia che, forse, avrebbero ceduto il passo a qualche tiepido momento di gioia, magari a qualche serata in cui si potesse conversare fuori al pub senza interrogarsi sull’identità di un interlocutore avvolto nell’eterna foschia, sempre, quasi ogni sera di ogni maledetto anno.
Questo pensava lui, Ennio, mentre tamburellava con le dita sulla scrivania Ikea di compensato bianco, nuova o quasi, piena di polvere rappresa, capelli e macchie di caffè sparsi qua e là. Ennio tentò di riconcentrarsi e inforcò di nuovo il mouse, il maledetto aggeggio che non funzionava mai, da quando era piccolo, che aveva sempre tentato di sostituire con la tastiera, il puntatore o il touchscreen, senza successo.
A lui piaceva usare le mani. A molti altri nel Paesello piaceva usare le mani, ma principalmente per dare luogo a risse. A Ennio invece piaceva creare con le mani, plasmare la musica come argilla e dare suono ai segni che leggeva sul pentagramma, dare forma alla più incorporea e inafferrabile di tutte le muse. Glielo leggeva in faccia suo padre, che da giovane suonava il basso e gli insegnò i rudimenti della chitarra quando Ennio era ancora bambino, così potevano suonare insieme.
Ennio strimpellava da solo o con gli amici sulla chitarra Yamaha rossa che in qualche modo si era fatto prestare dallo zio per intercessione di suo padre, finché una sera alcuni ragazzi più grandi lo invitarono nel club dove provavano. Il club in realtà era una cantina che una vecchia alcolizzata aveva affittato per poche lire mensili. Era una specie di quartier generale: cene, feste di Capodanno, appuntamenti galanti, tutto insomma, inclusa la musica. Gli amici avevano montato un’essenziale strumentazione ed era nato quello che ribattezzarono Il Luogo, un posto dove potersi incontrare per fare qualunque cosa e trascorrerci anche intere giornate. I ragazzi cominciarono a provare un abbozzo di repertorio e decisero di chiamarsi, appunto, i Cavern.
Al Luogo doveva esserci una bella atmosfera e, si vociferava, anche una invidiabile collezione di damigiane di rosso paesano, alcune talmente vecchie e sinistre che nessuno aveva mai avuto il coraggio di avvicinarvisi. Incuriosito, Ennio entrò in compagnia di un suo amico, non ricordava neanche più chi fosse, forse per la nebbia. E fu così che la vide: una batteria X-Drum marrone, completa di charleston e tutto il resto. Fu amore a prima vista. Riuscì perfino a bere un po’ dell’inchiostro custodito nella più vetusta damigiana, superando la paura dei danni fisici e dell’ira della vecchiaccia. L’iniziazione era completata.
Aveva 16 anni. Imparò a suonare, studiò fino a farsi venire le vesciche sugli anulari e in breve tempo padroneggiava bene la quartina, la terzina, la duina, lo shuffle e il reggae beat. Questo gli permise di entrare senza sforzi nei Cavern nonostante gli anche tre o quattro anni di differenza con gli altri membri del gruppo. Provavano, suonavano in giro per locali e feste, spingendosi anche in paesi e cittadine vicine, fino a quella grande serata in cui i Cavern suonarono per la prima volta al Knak, un pub dell’Agglomerato.
Ennio rimase folgorato. La gente ballava sui tavoli, e poi il casino, le luci, i tipi strani. Una volta diplomato, si trasferì ed entrò al Conservatorio. Mise su un nuovo gruppo, Uncle Ernie & his Fuckin’ Funny Orchestra. Le serate si intensificarono: era difficile trovare un locale in cui non avesse suonato, una manifestazione del cui palcoscenico non avesse calcato le tavole o un musicista del giro con cui non si fosse incrociato almeno una volta.
Abbandonò gradualmente le asperità punk rock giovanili per l’influenza della musica classica che studiava con diligenza. Si diplomò brillantemente al Conservatorio come batterista e percussionista, ma suonava quasi perfettamente anche chitarra, basso e pianoforte ed era capace anche di dirigere altri musicisti.
Il successivo passo era nella sua testa un lavoro stabile e onesto nel campo che lui amava e continuare a divertirsi facendo serate qua e là, ma soprattutto ormai si sentiva cittadino dell’Agglomerato ed era lì che voleva vivere. Si ritrovò invece senza uno scopo, perché non studiava più e non riusciva a trovare un impiego qualunque che gli permettesse di vivere. Stavano finendo anche i soldi delle serate, perché ne trovava sempre meno, molti facevano storie per il pagamento e in generale andavano per lo più dj set e baby gang che facevano hip hop i cui componenti erano dei veri malviventi, sempre nella loro testa.
Ennio non ebbe scelta: fece la valigia e tornò mestamente al Paesello, maledicendo sé stesso, la batteria e quell’amara metropoli che l’aveva prima sedotto e poi sputato via come un seme di anguria. L’unico che riuscì a prenderla peggio di lui fu suo padre, che era al settimo cielo per i successi musicali del figlio e non riuscì a consolarsi nemmeno al pensiero di riaverlo a casa.
Così, senza soldi e senza sorriso, Ennio si ritrovò quella sera dei suoi scarsi trent’anni a lavorare al pc col mouse all’arrangiamento di un pezzo composto da Oskuro, l’effettivamente nebuloso rapper del Paesello, che coi suoi testi scomodi e il suo turpiloquio puerile gettava fango sulla società effettivamente retta da una classe dirigente che annoverava tra i suoi principali esponenti suo padre, noto medico di provincia e consigliere comunale di maggioranza. Era proprio lui che, facendo leva sulla necessità che un corrotto assessore aveva di mettere a posto un’amica, aveva premuto per riaprire il vecchio centro sociale nella cui sala macchine ora sedeva Ennio, litigando con quel coso con la coda che sapeva usare molto peggio di una bacchetta da direttore d’orchestra. Sul tavolo erano sparse tante cianfrusaglie, tra cui banconote. Con la sinistra ne afferrò una da 50 € e iniziò a giocherellarci stropicciandola, mentre tamburellava con la destra sul mouse. Era frustrato, spazientito, spento. Diede un colpo col mouse sul pad e lanciò la banconota contro il vetro della sala d’incisione, in cui nessuno incideva mai.
I soldi ricaddero mestamente sul tavolo e la porta si aprì.
- Bella frà.
- Ciao Oskù. - Ennio era sconsolato al pensiero di quel pantalone esagerato, quella felpa capuche e quell’aria di sfida, ma riuscì ad apparire più inespressivo possibile. Guardò appena gli occhi del suo giovanissimo interlocutore.
- Hai finito? - disse l’altro nel suo accento volutamente pesante, mischiando italiano e dialetto. - Io devo incidere il pezzo nuovo.
- Un altro? Aspetta, devo finire ancora la base di questo.
- Sbrigati però. Non posso aspettare.
- E dove cazzo devi andare, a chiedere voti per tuo padre, che già sarebbe qualcosa, o a comprare il fumo, ammesso che tu ci vada davvero e non solo nei tuoi testi di merda. - Ennio si vide dirlo, ma non lo fece.
- L’ho scritto stamattina. - incalzava l’altro. - Si chiama Faccio grane.
- Faccio?
- Grane.
- Ma non è italiano “Faccio grane”. Forse vuoi dire “pianto grane”.
- No no, faccio. Ennio, come suona il pezzo? Guarda che questo è il quinto album eh, dev’essere più maturo.
Ennio non fece osservazioni sulle pretese di maturità artistica di un diciassettenne.
- Ma non è che c’hai da fare?
- Ma che c’ho da fare, qua ormai ci vieni solo tu. Praticamente lo avete aperto voi e lo mantenete voi.
Oskuro non era certo di aver afferrato, ma ovviamente non lo diede a vedere. Non trovò niente di meglio da fare che prendere 100 € e sbatterli sul tavolo. Ennio non lo guardò nemmeno. Forse lanciò un’occhiata ai soldi, ma non a lui.
- Ti do di più se ti sbrighi. Che ti credi? Questi per me non sono niente.
“Madonna, ma che vuoi da me?”
- Ennio, ci vediamo domani, base pronta e che suoni bene, poi registriamo Faccio grane e forse un altro se lo finisco.
Ennio si girò e lo vide varcare l’uscio e richiudere la porta. Pensò ai Cavern, all’Agglomerato distante 100 chilometri eppure lontano anni luce, al Conservatorio, alle scale eoliche, alle misolidie.
- Ma che cazzo ci fa questo con tutti ‘sti dischi che gli stampo? Mio Dio, è il nuovo Frank Zappa, è il nuovo Frank Zappa!!!
Gridò, si agitò. La stanza non era insonorizzata, quindi chiunque poteva sentirlo. Ma come sempre c’era solo l’amica dell’assessore, che tornò a leggere il suo romanzo seduta alla sua scrivania, senza farci troppo caso.

continua

Che sarà
di quelle due bambole in soffitta,
andranno d’accordo?
Che sarà
degli scatoli pieni, delle pagine scritte,
di quelli vacanti?

Sì, sono solo a metà,
ma mi calmo un po’,
lava di luna nelle vene,

quando mi hai pescato, rimesso in sesto
e sbrindellato
e abbiamo sputato in faccia ai soldi
mentre facevamo l’amore
e guarendo la ferita più profonda l’abbiamo rifatto
fasciando ginocchia e legandoci insieme coi nervi,
che ne è stato del Metrò?

Che ne sai
che cominciando un giorno ad annoiarmi
mi divertivo di più,
di quando allegretto ti dissi una volta
siamo due star,
se sono grande più grande ma solo un poco
lo devo anche a te
e il romanzo di formazione più bello
lo era meno di te,

dove sono
i baci i film i peluche i regali saltati,
dentro di me?
Quando arriva qualcuno che ignora dimentica o non ama la storia
ammazzalo te,
che una volta hai tagliato la testa a un gigante
per far tagliare a me tutto il resto,
che meno male che mi hai mangiato
e io mi ubriacavo di te,

quando uscimmo da Dite io dissi
andiamo al caffè,
ricominciammo da zero
e mettemmo su un numero nuovo,
poi di certo mi manca quel nido da cui
non mi muovevo,
ma la notte si è presa la luce
E-nel buio stai bene,

sì, ne abbiamo fatte tante,
facciamo pure questa,
forse starà bene
nel bagaglio formativo
che finalmente disfarò.

E combattevo per me per piacere
ma soprattutto per te,
ora mi faccio le nuotate in acque di merda
perché sono un involucro vuoto
soprattutto se è festa,
però rispetto soprattutto i vuoti momenti
perché a quelli non ci pensa nessuno
e se non volo vagherò coi miei aneddoti,
ci giocherò e li metterò a letto uno per uno.


16 agosto 2015

su di me

La mia foto
Ariano Irpino, Avellino, Italy
Antonio Oliva è nato nel 1985 ad Ariano Irpino (AV). Ha partecipato a numerosi progetti teatrali e musicali. Nel 2009 si laurea in Lettere Moderne e nel 2012 in Filologia Moderna presso l’Università Federico II di Napoli. Dopo diverse esperienze nel 2015 si abilita all'insegnamento presso lo stesso Ateneo. Ha lavorato a Roma e Bergamo e vive itinerando.
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