Tossicittà
Sono molto solo per
tutta la giornata, leggo un poco, ma se lo faccio a lungo mi viene mal di testa.
Dipingo per quanto posso farlo senza stancarmi e quando comincia a far buio mi
chiedo se Jeanne d’Armagnac [1]
verrà al mio letto! Qualche volta compare e vuole giocare con me, e io
l’ascolto quando parla, senza però riuscire a guardarla. È così alta e bella!
Ed io non sono né alto, né bello.
(Henri de Toulouse-Lautrec)
Ah,
but I was so much older then Ah,
ma ero molto più vecchio allora,
I’m
younger than that now sono
più giovane adesso
(Bob Dylan)
Tu che sei forte alla
morte sopravvivimi, io sono debole quindi l'anima minami.
(Caparezza)
- Era proprio bella.
Si muoveva, ma si
sentiva fermo, bloccato. Dopotutto, se per lui non contava più il tempo, e si
sentiva in grado di sfidarne le leggi, la stessa cosa valeva pure per lo
spazio. O forse era in balia di quelle leggi che non controllava più, che
facevano di lui quello che volevano e gli sfuggivano.
Marino era in metro e
fuori di sé, cercava di tornare a casa ma non ci riusciva. Qualcuno lo aspettava,
più di uno non sapeva che fine avesse fatto. La camicia bianca era sporca e quasi
del tutto aperta, una scarpa aveva un laccio sciolto, era sudato e i capelli
avevano l’aria di aver bisogno di essere lavati. Sedeva di sbieco, un piede
appoggiato sul seggiolino, un gomito sul ginocchio sollevato e la mano sul
mento. La metro era dentro Marino.
Non riusciva a non
pensare a ciò che era successo all’alba, quando aveva cominciato a cercare di
rincasare. Non riusciva a non pensare a lui, all’ultima volta che lo aveva
visto.
- Era proprio bella.
Marino era stato a
Delhi, era tornato in Centro. Era stato allo Shelter a bere e giocare qualche
partita con lo Scacchista e compagni. Per loro il gioco era una ragione di
vita, ma non erano ludopatici, non c’erano soldi in palio, ma solo la gloria.
Una nevrosi tirava l’altra, ma lui sapeva che l’unica che era anche la cura di
se stessa, la scrittura, che in effetti era pure quello che faceva per campare,
era ormai come perduta.
Una giovane donna passò
con il suo bambino, il faccino simpatico, sorridente, avrà avuto tre anni o giù
di lì. La donna guardò Marino, le fessure oculari di Marino incrociarono quello
sguardo, poi si spostarono sull’angioletto biondo che zampettava come un
pulcino dietro mamma oca. Il piccolo lo guardò e gli sorrise e Marino volle
essere lui, anche più piccolo, scomparire, andare a casa. Ma non ci andava, i
due scesero, lui rimase immobile.
Fredo era noto in tutto
il Centro. La leggenda voleva fosse arrivato in città non ancora ventenne per
studiare, attività che, semmai intrapresa, cedette presto il posto ad altre
cose più in voga nell’Agglomerato: feste, nottate, compagnie casuali, vizi,
noia. Fredo aveva cominciato a farsi nessuno ricordava più quando, neanche lui,
e si era fatto di tutto, fino alle sostanze di più recente immissione nel
mercato locale, che erano anche le più nocive, quelle che lo avevano minato nel
fisico e gli avevano definitivamente annebbiato il cervello.
Si diceva fosse stato
un bel ragazzo, quello che fino a quel giorno appariva come un malandato ometto
senza età (Marino sapeva da fonti attendibili che doveva aver passato i 45 e
gli sembrava plausibile), curvo, rugoso, denti e capelli pochi e sparsi, ormai
sempre sporco e malvestito. Ma a modo suo gli piaceva, erano amici, due cose
che Marino pensava di pochissimi nonostante conoscesse pressappoco tutti.
Fredo però da un po’ di
tempo era arrivato alla frutta, vistosi perduto e privo di risorse per soddisfare
l’unico bisogno residuo aveva cominciato a fare l’unica cosa che le leggi del
Centro Antico proibivano: arrangiarsi con scippi e piccoli furtarelli. C’era
chi lo temeva, altri, i più, lo lasciavano fare, non se ne curavano più di
tanto, queste cose si mettono a posto da sole. Marino non si era intromesso
perché è bene farsi i fatti propri, sapeva e teneva tutto parcheggiato in un
angolino del suo cervello, affianco a tutto il resto. La sua preoccupazione
rimaneva in stato di latenza, perché tutti sanno quanto sia difficile
affrontare argomenti di simile rilevanza con un tossico, e infatti i loro fuggevoli
e sempre più rari colloqui vertevano su fatti occasionali e di poco conto. Ora
Marino era pentito, avrebbe voluto fare di più, o preoccuparsi di più, o al
limite non essere mai nato, non sapeva quale ipotesi fosse la più allettante.
Quella mattina,
all’alba, si era imbattuto in Fredo. Il poveretto stava appoggiato a un
lampione, curvo come al solito, aveva corso, o almeno ci aveva provato. Marino
lo aveva guardato: perdeva sangue da una ferita al volto. Si era avvicinato, aveva
cercato di toccarlo, ma Fredo si era ritratto, come se fosse ormai contagioso e
non gli andasse di contaminare con il suo virus le poche persone che gli andavano
a genio e che evidentemente considerava ancora sane.
- Oh Fredo… ma che hai
fatto? Guarda qua, sanguini.
“Cosa vuoi che abbia
fatto. Solite cose alla Fredo. Vedrai che non è niente.”
- Non è niente,
tranquillo. - Fredo aveva alzato la testa, il suo ghigno malinconico era
spaccato a metà dalla luce gialla che metteva sonnolenza anche a chi non ne
aveva.
“Ecco, vedi? Ti
preoccupi per nulla. Se la sa vedere. Se la devono saper vedere tutti.”
Un nuovo giorno stava
per cominciare e le tenebre cominciavano a diradarsi. L’azzurro umido dell’alba
stava anche quella volta per sconfiggere il giallo scuro e pesante
dell’illuminazione pubblica.
- Sei sicuro? - disse
Marino violentandosi nel profondo per dirlo.
“Lascialo in pace. È
grande, è adulto, è Fredo e andrà tutto bene.”
- Sì. - fece quello
ansimando. - Ma… tu che fai?
- Torno a casa, sai, o
almeno ci provo. - disse Marino. Poi, non sapeva perché e se ne pentì subito,
ma si sentì in dovere di dire una bugia: - Stamattina devo scrivere.
Il sorriso di Fredo si
allargò e la sua faccia parve quasi una maschera infernale.
- Bravo. Bravo! Sono
felice. - biascicò.
Marino riuscì a
mettergli una mano sulla spalla.
- Sai quanto vorrei
vederti felice amico? - riuscì a dire.
- Ma sì, sì, è tutto a
posto, sto risolvendo tutto. Bravo scrittore! Qui c’è bisogno di te, ancora tanto
bisogno, io invece posso anche andare a farmi fottere!
Marino tacque,
impotente, continuando semplicemente a fissarlo.
- Sai quanto vorrei
essere come te, se sapessi scrivere!
Marino fu scosso da un
moto di tenerezza pura e triste.
- Ti accompagno a casa?
- No no, vai, sto qui,
sto bene.
Si udì un rumore
improvviso, come un fruscio nel vicolo scuro. Entrambi si girarono, poi lasciarono
perdere. Erano stanchi e quella era una tipica conversazione dell’alba del
giorno dopo, anche se il tono era decisamente più accorato del solito, come se
si trattasse di un momento più importante.
- Sai, mi sarebbe
sempre piaciuto saper parlare alle donne, dire loro tante cose belle, scrivere
poesie. Sai, qualche donna l’ho avuta Marì, però io non sono bravo con le
parole!
- Le parole sono belle
cazzate messe lì in superficie e ci puoi giocare come vuoi, contano i fatti.
- Sì però… - Fredo
tossì, sputò. - …però io sono timido, ecco.
- Anch’io. Mio Dio, ma
che ci facciamo qui sotto a questo coso, andiamo via. - disse Marino, mentre
pensava che Fredo gli stava confidando quanto lo turbava, cioè l’essere timido,
e in ciò si riassumevano secondo lui i suoi problemi, e non poteva fare a meno
di rendersi conto che pensava questo quasi con amore.
- Ehi, senti… lo sai
che mi ricordo ancora la prima donna di cui mi sono innamorato? E non era una
donna ancora, perché avevamo sei anni, andavamo a scuola e il primo giorno di
scuola, che era anche il primo giorno che l’ho vista, mi sono innamorato…
- Davvero? - disse
Marino, e i suoi occhi e la sua voce mostravano un certo interesse. - Se ti faccio
finire la storia dopo andiamo? Ma ce l’hai una casa? Sei sempre qui in giro…
La voce gli tremava,
perché?
- Sì… si chiamava
Angela… aveva capelli castani, occhi marroni e un sorriso grande.
Marino la vide, se la
immaginò proprio coi codini e il grembiulino bianco, e immaginò Fredo. Non
seppe dire nulla.
- Chissà ora dov’è… era
proprio bella.
Fu un attimo: la moto,
lo schianto, il cranio di Fredo spaccato a metà. Gli occhi di Marino si allargarono.
- Era proprio bella…
Fredo non c’era più, e
Marino non smetteva di pensare a quella scena, al sangue, al fatto che lui se
n’era andato perché in fondo era tutto normale: si sa chi comanda in Centro
Antico, e se sgarri, drogato o no, non sarà oggi, magari neanche domani, ma
stai certo che dopodomani ti ritroverai con una pallottola in testa oppure si
perderanno completamente le tue povere tracce, e non era questo il primo caso.
Ma stavolta non si era neanche voluto sprecare la pallottola, per quel resto
umano era bastato un colpo assestato ad arte ed era morto lì come un cane sulla
strada.
- Vuoi fare una cosa
per me wagliò? Vattene.
Una volta Fredo gli
disse così.
Non era il più
regolare, né il più strano, né il più malmesso che conosceva. Ora per le strade
di Zona Centro c’era un fastidio di meno, l’insetto schifoso era stato
schiacciato. Cosa avrebbe fatto della sua vita se le cose avessero preso una
piega leggermente diversa? Avrebbe studiato, avrebbe avuto le donne che ormai
non sognava neanche più e detto loro frasi appassionate, avrebbe vinto la sua
timidezza, si sarebbe sposato con Angela, sarebbe diventato un avvocato e
sarebbe andato in America, invece aveva scelto di essere un tossico
dell’Agglomerato che ruba in Centro per le dosi di past.
Marino sapeva chi era
stato. Sapeva chi era il mandante. Troppo facile. Sapeva anche chi, sapendo,
avrebbe tenuto la bocca chiusa, prendendosela col solo esecutore. Un po’ più
contorto. Sapeva tutto. Sapeva, specialmente, che doveva fare un giro in bici.
O forse l’aveva già fatto.
- Era proprio bella.
Categories: