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***

la vita è treno

Ragazza con la borsa a forma di gatto
parla con la vecchia lavandaia
sul terrazzo con l’edera sulla ringhiera
e la locomotiva che passa in cucina,

il mio passato sono i rombi di luce
trasportati dalle onde,
e la vecchia ha un cesto pieno sulla testa
e sta cambiando colore…

Adoro ogni traccia di te
e devo perdere l’abitudine di ricordare,
è come raccontare un sogno
o descrivere il fondo del mare.

Diamante estate 2013

Benevento, Hortus Conclusus
“Nulla in Italia è più antico di Benevento, che secondo le leggende locali fu fondata o da Diomede o da Ausone, un figlio di Ulisse e Circe. Essa fu senza dubbio un'antica città ausonica, fondata lungo tempo prima della conquista sannita di questa parte d'Italia.”
A scriverlo è Edward Hutton, nato ad Hampstead, Londra, nel 1875. I suoi viaggi in lungo e in largo per lo Stivale furono oggetto di numerose opere, tra cui spicca il suo ultimo lavoro, Naples and Campania revisited, uscito a Londra nel 1958 per Hollis and Carter. La sua testimonianza viene citata dallo storico casertano Aniello Gentile, autore di Benevento nei ricordi dei viaggiatori italiani e stranieri (Società Editrice Napoletana, Napoli 1982), opera patrocinata dal comune di Benevento. Sulla soglia del testo, il saggista beneventano Roberto Costanzo ripercorre la storia della sua città: “Quando dalle brume nordiche i Longobardi calarono per fondarvi il più grande ducato dell’Italia meridionale, Paolo Varnefrido Diacono ne celebrò i fasti.”
Costanzo si riferisce al Ducato di Benevento, la cui fondazione si fa risalire al 576; esso costituiva, insieme al Ducato di Spoleto, la cosiddetta “Langobardia Minor”, separata dalla “Maior” (come venivano chiamati i territori settentrionali) dallo Stato Pontificio. Il Ducato di Benevento rappresentò da un lato l’insediamento longobardo più meridionale, dall’altro l’ultimo a cadere (accadde solo nel 1078, quando i Normanni presero Salerno).
È in questo lontano passato che bisogna ricercare le origini e le prime testimonianze di una delle leggende popolari più note e studiate in Italia e nel mondo: quella delle Streghe di Benevento e del mitico Noce sotto le cui fronde esse si radunavano, un tema che ritroviamo nelle opere degli artisti praticamente di ogni tempo. La fonte più importante, a cui dobbiamo la stragrande maggioranza delle informazioni sull’argomento, è forse il “Trattato historico” intitolato Della superstitiosa Noce di Benevento, stampato a Napoli per i tipi di Giacomo Gaffaro nel 1640. L’autore è il beneventano Pietro Piperno, singolare e poliedrica figura di scrittore, filosofo e scienziato. Egli fu infatti medico, anzi “protomedico”, ossia il funzionario pubblico che coadiuvava lo Stato nell’adempimento dell’attività sanitaria (inutile sottolineare la rilevanza anche politica di questa carica). Nel suo trattato, rifacimento in volgare di un primo lavoro in latino, il Piperno ricostruisce la eziologia della leggenda, la quale assume contorni di vera e propria eresia. Le strane pratiche e i riti demoniaci che sembravano svolgersi sotto il Noce infatti derivavano dai culti religiosi pagani dei Longobardi: si racconta che nel VII secolo i Beneventani adorassero idoli come una testa di capra, un serpente di bronzo o una vipera d’oro (quest’ultima, detta “Anfisibena”, poteva essere alata o bicefala). La maggior parte di queste cerimonie si svolgevano sotto un enorme albero di noce situato due miglia fuori città, nelle cui radici, secondo l’autore, si era addirittura insediato il Diavolo. Siamo nel Seicento, il secolo del Barocco e della Controriforma cattolica, e per un uomo di scienza avvenimenti soprannaturali come miracoli, apparizioni ed interventi divini o diabolici di ogni sorta sono ancora plausibilissimi.
Ferdinand Gregorovius, storico tedesco del XIX secolo, riferisce che all’epoca “la città si considerava come repubblica sotto l'alto patrocinio dei Papi”. Il trattato è dunque un frutto dell’ortodossia cattolica più intransigente, volto alla descrizione del nemico (i pericolosi residuati di un paganesimo barbarico antico e misterioso) e alla sua distruzione culturale e materiale. In una società in cui la dottrina cristiana penetrava ancora ogni manifestazione della vita umana non c’era spazio per altre posizioni: la censura ecclesiastica costringeva gli autori a modificare anche i contenuti più innocui e l’alternativa era vedere il proprio lavoro messo all’Indice e arso pubblicamente (e non dimentichiamo i tanti eretici veri o presunti condannati al rogo dal Tribunale dell’Inquisizione). Gli intellettuali più intransigenti si arrangiavano come potevano: nacquero la stampa clandestina, la dedica a un personaggio potente che potesse fungere da protezione, la crittografia.
Nella sua opera, Pietro Piperno descrive l’albero incriminato e ne narra la storia, per poi soffermarsi sulle maggiori famiglie del patriziato beneventano che tanto peso ebbero nella vittoria del cattolicesimo su quei culti eterodossi (l’autore rintraccia gli albori delle casate in questione proprio nel VII secolo: sui loro stemmi familiari figurano infatti serpenti alati a due teste). Si chiarisce poi per quale motivo le Streghe si riuniscano qui piuttosto che altrove e perché siano donne piuttosto che uomini; si sottolinea l’incredibile fama del luogo maledetto presso gli Stregoni di tutto il mondo e se ne individua la precisa collocazione. Completa l’opera una serie di gustosi “esempi” di casi strani o prodigiosi riguardanti le Streghe oppure verificatisi all’ombra del Noce.
Nella prima parte dell’opera si intrecciano più che altrove storia e leggenda: si narra dell’assedio mosso nel 663 dall’imperatore bizantino Costante II al Ducato di Benevento. Ben presto a Romualdo I, sesto duca della città, non rimane che chiedere l’aiuto divino tramite la generosa intercessione di San Barbato, il futuro Vescovo di Benevento che predicava in piazza contro le idolatrie e i riti mostruosi che si svolgevano presso il Noce. La battaglia è vinta, soprattutto grazie al valore dei cavalieri longobardi e ai rinforzi provenienti da Nord e capeggiati da Grimoaldo, Re dei Longobardi e padre di Romualdo. Quest’ultimo, restaurata la pace, mantiene la parola e, recatosi in processione nella nebbiosa Valle del fiume Sabato, fa sradicare il diabolico albero, nelle cui radici viene trovato Satana in persona sottoforma di orrido serpente: solo un nuovo intervento di Barbato, che uccide il Demonio con l’acqua benedetta, salva la situazione.
In realtà si pensa che i riti longobardi affondino le proprie radici in culti pagani diffusisi a Benevento già durante la dominazione romana: si adoravano Iside, la dea egizia della luna che poteva dominare i serpenti, Ecate e Diana, divinità greco-romane rispettivamente degli inferi e della caccia (identificate come entità una e trina). Ipotesi molto probabile, se si pensa che il termine locale per “strega” è “janara”, che potrebbe voler dire “seguace di Diana” oppure derivare da ianua, latino per “porta”. Secondo la tradizione popolare infatti per tenere le Streghe lontane dalla propria casa bisogna tenere una scopa o un sacchetto di sale appunto davanti alla porta d’ingesso. La Strega che nottetempo tenterà di entrare dovrà allora contare tutti i fili della scopa o i granelli di sale finché spunterà il sole, la cui luce ucciderà la “sposa di Satana”.
Il Cristianesimo tentò di spazzare via le pratiche pagane preesistenti, ma finì con inglobarne molteplici elementi: per fare un solo esempio, il culto della Madonna ha più di un punto in comune con quello di Iside. I Longobardi si convertirono formalmente, ma in molti non abbandonarono le antiche credenze: un rito in onore di Wotan, il padre degli dei, prevedeva che la pelle di un caprone fosse appesa a un ramo del Noce. I cavalieri giostravano con l’obiettivo di strappare con le loro lance brani di pelle che poi divoravano in una sorta di pasto rituale. È probabile che le urla dei guerrieri abbiano suggerito ai Beneventani cattolici l’idea delle danze orgiastiche.
In ogni caso, alla fine del racconto Pietro Piperno può esultare per il trionfo dell’ortodossia sull’eresia: il Noce è distrutto e la partita è vinta. O forse no? In fin dei conti, un’inquietante leggenda narra che molti altri simili alberi siano cresciuti spontaneamente poco lontano, originandosi per intervento diabolico dalle radici del primo. E il duca Romualdo, privatamente e in gran segreto, continuò ad adorare la sua vipera d’oro a due teste…

antonio oliva 2012 per rivista "cultura e dintorni"
Antonio Oliva, Le Streghe di Benevento. La leggenda della "superstitiosa Noce", collana Saggistica, Caravaggio editore, Vasto, in uscita


Vincenzo Latronico è nato nel 1984 a Roma. Vive attualmente a Berlino ed è uno degli autori più promettenti del panorama culturale italiano. Oltre a romanzi e racconti, scrive per il teatro ed è anche traduttore. Ha curato una rubrica su Radio Onda d’Urto e ha vissuto a Milano, in Belgio e in Lussemburgo.

Ci incontriamo in occasione della premiazione del Premio Napoli tenutasi il 12.12.12 presso il Teatro Mercadante.  La nostra piacevole chiacchierata comincia al tavolino di un vicino e chiassoso bar, davanti a una birra e dei salatini.

Vincenzo, parlaci di te come uomo e come autore.
In realtà fatico sempre molto a sentirmi autore. Proprio oggi scherzando dicevo che sulla mia carta di identità c’è scritto ‘traduttore’, perché credo si tratti di una capacità misurabile. Che io sia un autore dipende da troppi parametri esterni, come il fatto che sia riuscito a pubblicare, che ci sia un mercato del libro, cosa che oggi non è poi neanche del tutto ovvia. Ho difficoltà anche a usare la parola ‘uomo’: quand’è che si diventa uomo? Alla nostra età i nostri genitori avevano già figli e mutuo, diversamente da noi. Ho studiato Lettere, poi Filosofia, ho iniziato un dottorato che poi ho abbandonato: ci sono un po’ di tracce di questo anche nel mio ultimo romanzo.

Parlaci delle tue opere.
Ho iniziato il mio primo romanzo, Ginnastica e rivoluzione (vincitore del Premio Berto opera prima), a 17 anni senza avere idea che avrebbe avuto un pubblico e sarebbe finito su uno scaffale accanto a Hemingway. È passato attraverso diverse redazioni, per uscire addirittura 7 anni dopo. Tutto questo si nota dalle pagine del libro, è un romanzo che serve a far vedere che ci sai fare. Mi viene in mente Wallace, che riassume il suo primo romanzo con la frase “Guarda mamma, senza mani!”. Col tempo poi si acquisisce dimestichezza. Non è un caso che il mio secondo romanzo, La cospirazione delle colombe, abbia trovato più lettori perché si propone di dare realmente qualcosa al pubblico, in termini di intrattenimento, opinioni, nozioni interessanti, a differenza del primo libro che oggi mi sembra un complicatissimo gioco di parole. Magari a tratti anche bello, ma niente di più. Linee guida sulla ferocia è un testo teatrale su fragilità, desideri e paure della ‘generazione 1000 euro’. Normalmente, il regista guida l’autore nella scrittura del copione. Nel mio caso, invece, non è andata così, per cui il mio libro può avere degli spunti interessanti o dei bei personaggi, ma non era adatto a essere rappresentato così come l’avevo scritto, infatti è andato in scena con molte modifiche apportate insieme da me e dal regista che con molta gentilezza mi ha spiegato cosa in scena non funzionava.

La cospirazione delle colombe è l’opera finalista nella sezione narrativa del ‘Premio Napoli’…
È un romanzo classico, molto lungo, con tanti personaggi e una trama molto complessa. È nato dalla sovrapposizione di due romanzi diversi: uno che parlava del mio quartiere nella periferia nord di Milano, il quartiere Isola, che un tempo era popolare ma in seguito a una serie di speculazioni è diventata una zona ricca; un altro sulla finanza e su certi fatti avvenuti in Albania negli anni ‘90, i quali mi venivano raccontati dal mio coinquilino albanese e mi parevano le premesse della crisi mondiale del 2008-2009. È una storia che parla di ambizione, di cosa si è disposti a tradire, delle autogiustificazioni: “ne ho subite tante, adesso tocca a me darle” e “se non approfittassi io lo farebbe qualcun altro”. Una volta messi insieme i due progetti, anche la scrittura è diventata più rapida.

Laureato in Filosofia, critico d’arte, traduttore, scrittore: come concili tra loro questi ambiti simili ma diversi?
Nel mondo del teatro io sono un infiltrato: il Napoli Teatro Festival mi ha commissionato un testo nell’ambito di un progetto che portasse a scrivere per la scena giovani autori che non l’avessero mai fatto. Io mi sono buttato ed è nato Linee guida sulla ferocia. Ho iniziato a scrivere di arte occupandomi della letteratura nell’arte. Di solito mi lancio, un po’ ingenuamente, nelle cose che mi incuriosiscono. Purtroppo però oggi si ragiona un po’ troppo per settori, forse più in Italia che altrove, credo a causa della gerontocrazia e del ‘diritto di cittadinanza’ ottenuto solo tramite la gavetta. Questa situazione non fa il bene della disciplina, ma di certo fa il bene dei praticanti, perché garantisce un numero limitato di ‘posti’.

C’è mai stato un momento di crisi nella tua attività in cui hai pensato di smettere di scrivere?
Sì, questa estate. Sono uscito da poco tempo da questa sorta di crisi. Ad aprile ho cominciato un nuovo libro, ma d’estate mi sono completamente bloccato: mi ero preso tre mesi per lavorarci ma non ho scritto niente, o meglio, ho scritto cose di cui ero profondamente scontento. Mi sono detto: se va avanti così mi dedicherò soltanto alle traduzioni. Poi, dopo un altro mese di ‘vacanza’, ho ricominciato a scrivere a novembre e ho riempito un quaderno che mi è stato purtroppo rubato pochi giorni fa. L’ho preso come un chiaro segnale: devi soffrire di più. Diciamo che è stato un anno complesso ma ora sono ottimista.

Lo stato della cultura in Italia e all’estero.
È un argomento veramente molto vasto. La musica e il cinema hanno attraversato una profonda crisi economica dovuta all’avvento del digitale. La letteratura non ci è ancora arrivata ma è sulla stessa strada. Credo che le cose cambieranno ancora e che la letteratura stia per infrangersi sullo stesso iceberg dell’industria discografica e non si stia prendendo nessun provvedimento. Gli economisti sostengono che tra qualche tempo tutta l’arte non sarà più pagata e sarà totalmente gratuita: un male per i produttori, ma un bene per i fruitori. Io sono molto più un consumatore che un produttore, quindi ci andrò a guadagnare. Un’obiezione potrebbe essere che in questo modo non si produrrà più cultura di qualità, ma se ci pensiamo in passato non esistevano le royalties, Ariosto e Cervantes non avevano le royalties, per cui se è andata bene per loro potrebbe andare bene anche per noi. Magari si troverà un equilibrio economico diverso. Il libro cartaceo a cui siamo tanto legati potrebbe scomparire, ma a pensarci bene è lo stesso discorso fatto ai tempi di un altro cambiamento epocale: l’invenzione della stampa a caratteri mobili avrebbe reso i libri tutti uguali e senza anima. La nostra è una generazione a cavallo, di transizione, ma già per i nostri figli tutto questo sarà normale. Sempre che le condizioni economiche ci permetteranno di averne. Siamo una generazione sfigata.

Ti senti un falco o una colomba?
È una domanda infernale perché in fondo se penso a una tesi del romanzo, se c’è, è che sono le circostanze che fanno il falco o la colomba. Io ho scelto di abbandonare il dottorato perché mi sembrava una situazione che ti incoraggiava a fare il falco. Se ad esempio, indipendentemente dal tuo valore, ti viene offerta una raccomandazione senza la quale non puoi andare avanti, perché il tuo posto verrà comunque occupato da un altro raccomandato, tu cosa fai? Se accetti, questa è la situazione che fa di te un falco. Scegliendo di andare in Germania e di ritirarmi dalla società letteraria italiana ho cercato un po’ di preservarmi, se vuoi per vigliaccheria, perché di fronte alla scelta forse non avrei il coraggio di fare la cosa giusta. Mi sento molto volubile, o molto ‘volatile’, per cui preferisco privarmi della scelta. Per dirla con Andrea de Carlo, autore di Uccelli da gabbia e da voliera, io forse mi sento un uccello da voliera.

Prima di salutarci, secondo te stasera chi vince?
Come ha scritto Saint Just nei Frammenti sulle istituzioni repubblicane, “Alla fine vince sempre il popolo”.

Così si conclude la nostra intervista, ma continueremo a chiacchierare ancora a lungo. Intanto scappiamo al Teatro. Paghiamo il conto e Vincenzo ci dice: “Grazie ragazzi, se vinco a buon rendere”.

La cospirazione delle colombe ha vinto il primo premio nella sezione narrativa del ‘Premio Napoli per la lingua e la cultura italiana’ con la seguente motivazione: “Apprezzabile per l’urgenza dei temi affrontati – l’etica dei rapporti interpersonali sullo sfondo della crisi globale – La cospirazione delle colombe avvince l’attenzione del lettore grazie a un’esperta costruzione dell’intreccio, alla vitale originalità dei personaggi e a una lingua affabile, efficace, mai corriva.”


Antonio Oliva & Filomena Roberto 2013
(da rivista Cultura e Dintorni n. 8-9)

***

dal breviario


Orgogliosi
dei nostri posti vuoti
proseguiamo,

cercherò
quel che chiedete,
generali illuminazioni
che sian buone
un po’ per ognuno
e non solo
per il solito cuore
in cui continuo a scavare.

Una volta addestrato alla bellezza
tutto il resto non regge il confronto,
lo sferragliare di queste strade,
la sabbia,
come noi, ma ora non voglio pensarci,
è un brivido
lungo la mia spina dorsale,
irregolare,
ma certo,
se per sopravvivere devo scrivere
e per scrivere devo vivere,
meglio se chiuso qui dentro con te,
senza soldi, senza tv,
in un turbine d’avorio
stando fermi sopra il letto,
uno per l’altra.

Faccio muro
contro gli altri,
in dialetto
stupirò
l’amore che mi hai dato e non mi hai detto,
la luce che mi serbi per domani,
così scendo dalle nuvole eccellenti
e volentieri mi incontro col contorno.

Cinque minuti e poi, e poi boh,
meraviglioso scrigno e rarità,
storie, abiti rosa,
sposa,
ballando di te mi parla
ogni minima scheggia d’amore
che da ogni brandello di mondo
affiora,
schizzami, e io troverò in ogni convenzione
la scusa
per celebrare una festa.

Vuoi vedere tutte le parole
che non sono ancora in grado di esalare?
Guarda nei miei occhi,
e io guarderò la luce,
e la luce diventerà i miei occhi,
e i miei occhi diventeranno ghiaccio,

e il mio cuore come il fuoco.

da "frantumi" e rivista "cultura e dintorni" n.1
napoli 2009
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Toni guardava la banca e la banca guardava Toni in quel momento, era intorno all’una, in cui anche un paesino si tramuta in una metropoli, con tanto di traffico, clacson, qualche incidente stradale e parecchie profanazioni. Era quasi ora di pranzo e tutti avevano una fretta indiavolata di tornarsene a casa, sia che avessero un lavoro, sia che lo stessero cercando, sia che semplicemente avessero passato la mattinata a zonzo, come quei magnifici vecchi che alle otto li trovi già al bar, e magari sono lì da ore, con una bella bionda in mano, e magari non è la prima. Ti fanno impressione, hanno occhi, volto e denti non in buono stato, ma a volte sono gioviali e ti suscitano molto più interesse umano di un banchiere pulitino.
Davanti a Toni procedevano vari banchieri di tal fatta. Pareva una rada marcia di fascisti sparuti, pensò Toni; il cervello dell’artefice aveva già pensato alla possibilità di scrivere qualcosa al riguardo, l’aveva già sistemata in un quadro narrativo coerente e aveva già cominciato a pensare al nome del protagonista, ma probabilmente non avrebbe mai scritto una sola parola su quello. Improvvisamente Beatrice s’intravide uscire dalla porta. Schizzò in tutta fretta nell’auto decappottabile, che lei aveva fortemente voluto comprare, e si sedette alla destra di Toni.
- Amore mio, che giornata! Dai, andiamo. - disse baciandolo frettolosamente sulla bocca e posando la valigetta, la borsa e uno sciarpino sul piccolo sedile posteriore. Toni fumava una Kim mentolata lunga e sottile con cui fu attento a non bruciare Beatrice. Spese le minori energie possibili per ripartire il più velocemente possibile senza apportare danni a niente e nessuno. Costeggiò la cattedrale, il campanile, attraversò la piazza principale coi suoi grandi e scivolosi sampietrini bianchi, dunque imboccò il corso principale diretto verso casa. Distrattamente posò lo sguardo sul Palazzo di Città, precisamente sul bar sotto il porticato dell’edificio, e pensò a suo nonno, che ci aveva lavorato tutta la vita. Guidava, fumava, pensava, piangeva anche, solo una lacrimuccia vicino a un occhio, ben nascosta dagli occhiali a specchio, ma poteva benissimo essere l’allergia.
Lasciarono in silenzio il caldo centro soleggiato. Poi Toni chiese:
- Tutto bene oggi? Com’è andata?
- Come al solito, tutto bene. - rispose lei da dietro i suoi grandi occhiali da sole. - Fa caldo, eh?
- Molto caldo, guarda qua! - disse Toni facendo un ampio gesto a indicare con la mano aperta la camicia altrettanto aperta. - Sono tutto sudato. Meno male che abbiamo la cabrio! - disse indicando la macchina. La amava, ed era reciproco. Lei gli regalava gli ormai pochi sorrisi della giornata. Non era da quel rapporto di coppia che derivavano i suoi problemi, né dalla convivenza, né dall’economia domestica o da qualsiasi cosa potesse imputarsi a quella ragazza. In realtà non sembravano venire da niente e da nessuna parte. Ma allora da dove venivano?, perché era evidente che aveva dei problemi.
- In realtà, c’è sempre quella storia lì… - disse Bea dopo qualche attimo di silenzio.
- Ah, già. Eh… - fu tutto ciò che riuscì a rispondere Toni, guidando e fumando. L’auto percorreva una ripida discesa, erano quasi arrivati. Toni guardò Bea, incrociò il suo sguardo. Senza dire nulla prese il cellulare e fece una chiamata.
- Mio caro, cosa c’è? - Dante Scarlatti aveva risposto con estrema rapidità e voce gioviale.
- Sempre quella storia alla banca… - disse Toni senza salutare.
- Uhm. Capito. Me ne occupo io?
- Sì… - disse Toni. - per piacere…
- Nessun piacere. Tu dici, io eseguo. Come va con l’editore? - disse Scarlatti parlando velocemente.
- Boh, prende tempo. - rispose Toni parlando lentamente.
- Latita?
- Per così dire…
- Uhm. Capito. Me ne occupo io?
- No, no! - si affrettò a rispondere Toni.
- Ok, ciao. Ah, buon appetito. - disse Dante riattaccando.
- Pure a te. - disse Toni al telefono senza linea, immaginando Scarlatti che mangiava uomini. Bea lo guardava.
- Le date? - domandò cambiando argomento. Erano arrivati.
- 15, 20, 25, 8. - rispose Toni.
- Sei contento? - disse Bea. - Sei una superstar.
- Lo ero anche quando mi hai conosciuto. - disse Toni.
- No. - disse Bea. - Ora lo sei.

La porta dello studio si aprì e Toni entrò. Era pallido, stanco, sudato. L’estate stava lasciando il posto al freddo che di lì a poco sarebbe tornato a cingere il paese con il suo nebbioso abbraccio. Già il giallo e il verde non dominavano più i campi, il parco e il piccolo centro storico, lasciando spazio al rosso di un autunno rosso come le gote e gli occhi di Toni, il quale si aggirava per lo studiolo con andatura fin troppo rapida e scattante per quanto appariva assonnato. In effetti era assonnato, ma non si trattava di una piacevole sensazione di stanchezza che preannuncia l’arrivo di un meritato sonno ristoratore; si sentiva come un sonnambulo febbricitante e gli pareva di avere le allucinazioni.
E le aveva: vedeva Scarlatti, l’editore, Rodolfo, la banca, il direttore raccomandato che a sua volta, tra una cagata e l’altra, raccomandava altri raccomandati da dietro la parete di vetro del suo ufficio tutto bianco, impeccabilmente pulito, soffocante, e indossava sempre una camicia bianca a righine blu.
Poi vide Beatrice, che lasciò stare per rispetto, e poi l’editore, il paese, la campagna, l’Agglomerato, vedeva tutto dall’alto e gli pareva di essere prigioniero di una specie di cupola o piramide. Si sentiva una pala eolica, costretto a girare, a produrre qualcosa di buono per il bene di chicchessia, certo non per il suo.
Ritornò con la mente alla città, si vide giovane, bello, povero e felice, soltanto un promettente scrittore e la sua musa, e poi certo i lettori, i club e i caffè dove passava la notte a creare, circondato dagli ammiratori. Era stato la migliore promessa non mantenuta della Bohème cittadina, lo studente più brillante della sua annata che non si laureò mai, il cuore pulsante più appassionato che fosse mai appassito stritolato dalle mani ossute del potere.
Ora aveva una vita tranquilla, cosa gli mancava? Era ancora giovane e bello, non era più povero e lavorava in continuazione, aveva realizzato il suo sogno di bambino e adesso la sua passione era il suo lavoro. Già, il lavoro. Il moderno “Timore e tremore”, il sogno e lo spauracchio della generazione precaria. Ma non per lui, scrittore di successo, apprezzato letto e seguito assiduamente in tutta la nazione, per ora. I suoi scritti si diffondevano tramite il web in ogni angolo del globo, di lì a poco sarebbero uscite le prime traduzioni all’estero. Era tutto quello che aveva sempre desiderato, bastava solo mantenere la calma… e invece…
E invece ogni giorno si rendeva conto di essere meno felice del precedente, ma non lo dava a vedere, in fondo era sempre stato un tipo un po’ strano. Solo Bea gli chiedeva ogni tanto come stesse, ma lui la rassicurava, le diceva quello che lei voleva sentire, la faceva stare bene e le dava sicurezza. L’unica differenza tra i due è che lei era davvero felice.
Si versò un bicchiere di bourbon e lo buttò giù d’un colpo. Poi un secondo. Il terzo lo sorseggiò più lentamente, seduto allo scrittoio. Il collo gli cedette improvvisamente e dovette lottare per non svenire, raddrizzandosi repentinamente e buttando all’insù la testa. Lo scatto gli procurò dolore e cercò di distrarsi accendendo il pc. Squilla il telefono.
- Pronto amore… sì, sono in studio… tutto bene, ero uscito a fare una passeggiata… una lunga passeggiata… so che è molto tardi, lavoro un po’ e ti raggiungo, ok?, comincia pure a piovere, sai che mi piace... no, lascia perdere, non ho fame… va’ a dormire, ok?... tutto bene, sì sì sicuro… no, non ho bevuto… cioè, sì, beh, un poco… no, non ho sentito nessuno… ah-ha… no no, nessuna novità, ma sta’ tranquilla… a dopo, buonanotte. Ti amo. Sta’ tranquilla. (Bacio) Ciao.
Rimase lì imbambolato a fissare un cellulare senza linea. Dopo 5 minuti digitò un sms e glielo mandò. Diceva: “Ti voglio bene.”
Sigaretta: una Maria y Juana, famigerata sigaretta guatemalteca. Erano stati molto felici. Fino al salto di qualità. Poi arrivarono le visite in piena notte, le correzioni, la censura. Si sentiva male. L'onorevole Dante Scarlatti per lui era qualcosa a metà tra il Tribunale dell’Inquisizione e un imperatore romano, e Toni era incapace di rifiutare, di dissentire, perfino di qualsiasi seppur velato atteggiamento di critica o fronda. Quella sicurezza gli aveva permesso di realizzarsi, di risolvere i suoi problemi e di raggiungere ogni suo obiettivo, ma aveva venduto sé stesso, tradito l’intellettuale indipendente che era, gli infuocati reading dell’Agglomerato, la sua giovinezza, sé stesso bambino.
Toni era ormai consapevole di essere un perfetto intellettuale di regime, il suo ormai autorevole nome serviva e propagandava un potere tutt’altro che umanistico, che tra l’altro stava uccidendo la sua terra insieme a tutto ciò che amava e in cui credeva. In cambio, poteva avere tutto quello che voleva. Si guardò nello specchio, gli capitò di nuovo di vedere sé stesso giovane e si fece schifo.
Sputò in direzione dello specchio senza riuscire a colpirlo, si diresse verso lo scrittoio e ripiombò sul seggiolone in legno. Guardò il foglio bianco sullo schermo del pc. Aveva sporcato tutto lo studio di sangue. Una sirena si udì in lontananza. Portò le dita rosse alla tastiera e scrisse:
Fine, finalmente.

Toni guardava fuori dalla finestra, ma non vedeva niente: il suo sguardo era perso nel vuoto. Il rumore del traffico, il rombo di una moto che di tanto in tanto percorreva il paese da parte a parte giù sulla statale, lo schioppettare ritmico e regolare, simile al trotto di un cavallo, delle auto che rimbalzavano sui dossi rallentatori nelle vicinanze. Di cavalli neanche l’ombra, non si vedevano più in giro neppure asinelli, ce n’era solo uno, di proprietà di un certo vecchietto che di quando in quando ancora faceva la sua comparsa la domenica mattina in piazza, davanti alla chiesa. Non c’erano i cavalli che trainavano le carrozzelle turistiche, non c’erano neanche quelli delle corse clandestine. L’Agglomerato era lontano, lontano quasi come il paese che Toni ricordava da bambino. Per un istante si ricordò di quel bambino, vide la sua faccia e si spaventò, ma era troppo stanco per non ricadere subito dopo in quel limbo psicofisico che chiamano stress.
Aspirò una lunga boccata dalla sua sigaretta, distrattamente. Non era semplice concentrarsi, non era semplice far nulla in quel posto dove non si aveva nulla da fare e mai il tempo per far nulla. Cosa facessero i paesani tutto il giorno era un mistero per Toni. Finalmente riuscì a concentrare lo sguardo su qualcosa: l’orizzonte, segnato da tante lucine rosse intermittenti. Pale eoliche e pannelli solari dovunque. Energia pulita, pensò, ed economica. Ma prima qui era tutto buio, vedevi solo lucine lontane, bianche, gialle, verdi, e credevi fossero tutte case di gente che ti vede come una lucina gialla. Non rimaneva che il filtro. Toni spense la Marlboro al mentolo nel portacenere ricavato dal guscio di una noce di cocco (in cui un tempo risiedeva un gelato al cocco).
Aveva scritto soltanto poche parole, poche quasi come le ore passate seduto lì. L’elegante seggiolone in legno col cuscino verde era diventata una sua appendice e lo controllava, impedendogli di alzarsi quasi gli pesasse. Doveva andare in bagno ma non se ne curava. Continuava a scarabocchiare disegnini inutili, o a fissare il pc, inerte, selezionando cose a caso sullo schermo, un’occupazione del tutto pleonastica, tuttavia priva di qualunque impegno.
Squillò il cellulare. Toni lo prese, lesse il numero e abbozzò un mezzo sorriso. Tuttavia non sorrise, né rispose, né ebbe altre reazioni, lasciando che il cellulare facesse da sé e smettesse di suonare. Lo ripose nel porta-telefono a forma di pallone bianco e azzurro e si mise a scrivere una parola, poi un’altra e un’altra ancora, tutt’a un tratto pareva ispirato.
Trascorsi dieci minuti aveva scritto qualche pagina, quando qualcuno citofonò. Si bloccò e rimase immobile, ma non teso, solo fermo e in silenzio. Sembrava di nuovo scoraggiato come prima. Nuova citofonata.
- Avanti, è aperto.
La porta si aprì e ciò che ne entrò non venne accolto da Toni in modo festante. Il professor Scarlatti si tolse l’impermeabile e lo mise sull’attaccapanni. I due non si guardavano e non aprivano bocca, quindi Scarlatti si sedette di fronte a Toni ed esordì:
- Come andiamo?
- Non andiamo.
- In che senso? - chiese meccanicamente il professore.
- Nel senso che oggi ho scritto solo un poco.
- E va beh, meglio di niente… - sorrise Scarlatti alzando in aria la mano destra come a dire “che te ne frega”. Si sistemò gli occhiali. - Hai sentito dell’incidente?
Toni sgranò leggermente gli occhi. - C’entri qualcosa?
- Per chi mi hai preso?
- Per Dante Scarlatti.
- Ah, allora siamo a posto. - rispose l’altro, calmo. Ci fu un nuovo momento di silenzio correttamente interpretato da Scarlatti come un’attesa. - Copiami tutto. - disse gettando sul tavolo un driver usb. Toni eseguì senza fiatare. - Poi vado, - aggiunse il professore accendendosi una sigaretta. - sono in piedi dalle 6 e ho un appuntamento.
Toni non chiese con chi era l’appuntamento, gli scappò solo un piccolo cenno, come a dire “prego, fuma pure nel mio piccolo studio in affitto dove veramente non dovrei fumare neanche io!”. Ridiede l’usb a Scarlatti che se lo mise in tasca.
- Ora vado. Buon lavoro al mio artista. - disse Scarlatti stringendo il polso di Toni. Quella mano minuta assomigliava a una manetta. Toni fece un gesto distratto di saluto. Scarlatti riprese l’impermeabile, lo indossò e uscì in strada con passo spedito e leggermente baldanzoso, cosa che non sfuggì a Toni, il quale rimase dietro il suo scrittoio, a fissare un virtuale foglio bianco, solo. Il sangue gli ribollì nelle vene e gli venne voglia di imprecare e bestemmiare, al limite rompere qualcosa, non dico sfasciare tutto, per carità, ma almeno spaccare un vaso, una cosa così. Invece gli uscì solamente un insulto a mezza bocca. Era: - Dannazione.

Il sole tramontava davanti a Toni in direzione del mare oscurato dai monti violastri. Le nuvole producevano sbuffi grigiastri sopra di essi, e più su ancora esplodevano in funghi atomici rosacei. Davanti a lui si estendeva campagna a perdita d’occhio, solo alcuni elementi gli ricordavano il secolo in cui si trovava: la grande soprelevata, la grande fabbrica e le centrali eoliche. Diede un’occhiata al cellulare, una boccata alla Marlboro Blend 29 e un pensiero a lei, e allora si ricordò di non essere più bambino.
I paesini circostanti si abbarbicavano su montagne e colline, vi erano arroccati o vi formavano graziose corone. Una calda e leggera brezza estiva lo investì e l’ultimo sole lo abbagliò, ma neanche tanto. Toni lo guardò svanire piano piano dietro l’orizzonte frastagliato come non faceva da tempo. Un brivido lo investì, un brivido subitaneo. Incredibile. Lui era uno scrittore, eppure quella era una situazione così insolita per lui. Insolita come la lacrima che gli fece brillare un occhio.
- Carissimo!
Il brivido era sparito e Rodolfo era arrivato. Rodolfo gestiva il Senzatempo, il locale alle spalle di Toni. Il sole non c’era più, il mare non si vedeva e lui non se lo ricordava quasi più. C’erano i monti, la campagna, le luci, il burrone, la ringhiera, poi c’era Toni alle cui spalle c’era Rodolfo e c’era il Senzatempo, c’erano il paese e la vita di Toni, ma Toni era così in alto che poteva vedere per chilometri, e per poco da dietro le sottili lenti transition non vide la sua vecchia vita.
Toni non sapeva se e cosa dire, e per uno scrittore questo è veramente imbarazzante.
- Uè caro.
Meglio di niente, almeno non passò per pazzo.
- Ti senti bene? - chiese Rodolfo. - Sei paonazzo.
- Tutto bene, tutto bene. - rispose Toni aggiustandosi gli occhiali. - Allora?
- Allora che? Tutto a posto, la data è confermata, i musicisti pure, ci sarà un bordello di gente, come sempre del resto: è agosto e tornano tutti qui.
- Tutti quelli che non ci vengono mai.
- Non essere così duro, Toni: ci sono anche Natale e Pasqua.
Toni ridacchiò.
- Dai artista, ti ho fatto ridere! - sghignazzò Rodolfo. - Sul serio, c’è qualcosa che non va? Come ti senti? Dimmi la verità.
- Devo dirtelo, mi sento abbastanza bene, davvero. Può anche darsi che sia il caldo, o che abbia bevuto più del solito, o dormito di meno, onestamente non lo so. Ma me lo godrò tutto. - disse Toni. Rodolfo lo amava, o lo sfruttava, o lo odiava, non ne era sicuro.
- Ti conosco da troppi anni. - disse Rodolfo.
- Da troppi per pensare che te ne approfitti. - fece Toni.
Una nuvola passeggera fece cadere sui due amici poche gocce di pioggia di discrete dimensioni.
- Merda! - gridò Rodolfo. - E se piove? Dai, no, non me lo può fare, mannaggia quel porco!
Non si è mai capito di quale porco si tratti, perché i più timorati sostengono sempre di riferirsi al brutto tempo, i più trasgressivi ad altro.
- Non lo sai che qua il clima è diventato quasi equatoriale? - disse Toni accendendosi una sigaretta distrattamente con due mani, riparando la fiamma dalla brezza. - Colpa dell’inquinamento forse, o del riscaldamento globale. Della discarica. Che ne so.
- Scrivici qualcosa. - propose Rodolfo.
- No. Meglio di no.
- Ho capito. Come la vede un artista della tua esperienza? - cambiò argomento Rodolfo, anch’egli provvisto di notevole esperienza. Il locale già cominciava a riempirsi di gente in cerca di un sostanzioso aperitivo. Rodolfo indicò un gruppetto che scendeva le scalette: si dirigevano verso la loro postazione e parevano già alticci. - Sarà un pubblico difficile?
- Non esiste un pubblico facile Rudy, è già tanto se esiste un pubblico.
- Sei un grande, Toni. - disse Rodolfo. Era quasi buio.
- Lo sei anche tu. Non è facile nemmeno quello che fai qui.
Rodolfo gli mise una mano sulla spalla: - A presto.
Non parlarono di soldi.

... Ti piacerebbe leggere il resto? Un po' di pazienza ;)

L'estate finisce troppo presto,
cammino sempre su un tappeto
ma le nuvole sono foglie
mangiate dal marrone
ora che la neve della nostalgia
scende sulla primavera della vita
che passa col suo piccolo bagaglio,

un rapporto che non ho mai avuto,
mai cercato.

Quando l'albero si spoglia,
l'estate non c'è più.

31/08/2012

il 13 settembre 2013 una ragazza indiana di 17 anni venne barbaramente trucidata dai familiari per il suo sogno d’amore proibito

Buongiorno, albeggia
e il mattino settembrino non scopre più il pudico sari
premuto su forme appena accennate dalla penna di Krishna,
la notte non porterà mai più via con sé i sogni che facevi per volare in alto,
perché l’unico modo per fuggire è restare qui per sempre,
dove non c’è posto per crescere e lavorare,
dove passi la giornata accanto al tuo amore lontano mille miglia,
lì da dove ci insegnavi il potere della parola casta,
dove non basta trovare il tempo giusto per far battere un cuore,
e il nostro disgusto sparirà con la notizia di domani
e nessuno ricorderà che con Gomathi si è sciolta la nostra civiltà.

Stai correndo, è buio,
corri sempre e non sai dove vai,
potresti essere quello che guida,
potresti essere quello sull’asfalto,
seguimi se ti piace, ma potrei essere il mio clone,
il professore è tornato quindi rientra in Occidente
e credo di avervi annoiato.

Non aggiunsero altri anni ai tuoi 17,
non ti raggiunse l’acido le viscere che la corda fu già tesa,
ogni colpo che vola cade giù una parola,
selvaggiamente bastoni negano identità,
grida la casa di Seevalaperi, giù a sud,
mentre brulica il Tamil Nadu,
vorrei che le grida fossero servite,
ne avresti gridate di più,
con l’inganno hanno fermato la tua corsa
per poi negare e confessare ciò che non riconoscono,
la figlia del contadino è viva.

Stai correndo, è buio,
corri sempre e non sai dove vai,
potresti essere quello che guida,
potresti essere quello sull’asfalto,
seguimi se ti piace, ma potrei essere il mio clone,
il professore è tornato quindi rientra in Occidente
e credo di avervi annoiato.

Buongiorno, albeggia
di nuovo a Seevalaperi
e c’è sempre tanto da fare nel Tamil Nadu,
forse si poteva fare di più, cari Ministri delle Priorità,
forse si poteva fare di meno,
millenni di danze favolose dentro al fiume
avvolti nella vergogna come pesci,
il suicidio non convince, nel villaggio non te lo puoi permettere,
l’avevi promesso al tuo dalit laggiù a Tuticorin tra le onde e le ciminiere,
griderà sempre Murugan e tutto il mondo
il nome di Gomathi, l’angelo straniero in casa propria.

Stai correndo, è buio,
corri sempre e non sai dove vai,
potresti essere quello che guida,
potresti essere quello sull’asfalto,
seguimi se ti piace, ma potrei essere il mio clone,
il professore è tornato quindi rientra in Occidente
e credo di avervi annoiato.

Antonio 30 settembre 2013

***

Ogni paese è un rimpianto
per un altro tempo,
per un'altra cosa,

smettetela
di farvi
la guerra,
di uccidervi l'un l'altro
e di rifugiarvi
dai vostri fratelli.

Il guardiano gira
e si tenta l'impossibile,
ma il paese muore
mentre cerchiamo
di arrivare a domani.

Restando vivi
parla di noi
il fumo che sale
da queste fiaccole al cielo pungente,
nessuna regola
potrà spiegare
quelle due stelle che brillano su me,

sento il peso
di corone medievali
in questa villa contesa dai villani,
strani mostri partorisco all'aperto
riverito,
forse riconosciuto in piazzetta
dove la fontana non c'era,
non c'era niente,

tu non lo sai.

Memorie non dormono mai
ma salgono melodiche al cielo
mentre le freno,
mentre le premo
perché da tempo
ho impedito loro di uscire
perché ero distratto,
ma nonostante interruzioni,
ciance e bevute
le tengo in pugno
e solo per me
danzeranno stasera
se non farò il cattivo
né troppo il buono.

Mi batte il cuore
assieme alla cassa,
bellissima mi appare
la luna piena,
improvvisamente
seduto sul mio paese.

ariano estate 2013
a

La cultura brasiliana è un grande mare che nasconde tesori sommersi: la poesia si intreccia con la musica, il Nuovo Mondo incontra la grande tradizione europea. Ne abbiamo discusso con Gianluigi D’Agostino, esperto e studioso di cultura brasiliana.

Come ti sei avvicinato alla cultura brasiliana?
Tramite Vinícius de Moraes ho conosciuto la letteratura brasiliana. Stiamo parlando di letteratura contemporanea, molti degli autori che studio sono ancora in vita. Sono quindi andato a ritroso fino alle origini, fino al Quinhentismo (XVI secolo, subito dopo la scoperta del Brasile), una corrente parallela al Classicismo portoghese e relazionabile al Rinascimento europeo. L’autore più importante fu José de Anchieta, missionario gesuita fondatore di San Paolo e Rio de Janeiro. Si dice che egli scrivesse le sue poesie sulla sabbia usando un bastone. Veniva chiamato “prete santo volante” per la sua disposizione alla predicazione itinerante. Affrontava due volte al mese un tragitto di 105 km, oggi percorso annualmente da turisti e pellegrini, così come accade per il Cammino di Santiago di Compostela. Fino agli anni ’20 del XX secolo la letteratura brasiliana si ispira costantemente alla letteratura europea. Successivamente il Brasile si emancipa culturalmente con la “Semana de Arte Moderna” (1922) e con il Modernismo e l’Antropofagismo degli autori Oswald de Andrade e Mário de Andrade (1928). Poi si arriva al Postmodernismo e alla contemporaneità.

Chi è Vinícius de Moraes?
Vinícius de Moraes è stato uno dei più grandi poeti brasiliani, anche per la sua versatilità: cantante, autore di poesie, canzoni, opere teatrali. Dalle sue opere sono stati tratti diversi film. Era estremamente attento alle tradizioni popolari del suo Paese e fu oppositore e contestatore della dittatura. Nel suo primo periodo de Moraes era forse più vicino a Ungaretti e le sue poesie trattavano per lo più di religione. Il suo secondo periodo è considerato quello del “vero de Moraes”: egli spostò la sua attenzione sul tema dell’amore. Chi lo ha conosciuto ha affermato che fu uno dei pochi che sia riuscito a vivere poeticamente. In Brasile de Moraes rappresenta una leggenda: pare che ricevesse le visite nella vasca da bagno. La sua casa era aperta a tutti: chiunque poteva armarsi di una chitarra ed entrare. Veniva da famiglia agiata, ma era molto vicino alla gente: girava nelle favelas con un rotolo di banconote, frutto dei suoi primi ricavi come poeta, per regalarle ai poveri. Guadagnò molto, ma era sempre senza un soldo. De Moraes ha studiato in Inghilterra e ha avuto una formazione prevalentemente europea. Fu profondamente influenzato dalla filosofia dell’amicizia di Nietzsche.

A proposito dell’amicizia, parlaci del suo incontro con Ungaretti.
L’incontro avvenne in casa di Oswald de Andrade, quando de Moraes aveva 24 anni. Giuseppe Ungaretti aveva accettato una cattedra all’Università di San Paolo e rimase molto affascinato dal giovane de Moraes, tanto da tradurre in italiano poesie sue e di altri autori brasiliani. Ungaretti era stato conquistato dalla natura e dall’arte brasiliane, in particolar modo dal Barocco; considerava il Brasile “la sua patria umana”. Molti anni dopo i due si incontrarono nuovamente in Italia. Esiste un album, La vita, amico, è l’arte dell’incontro, in cui ognuno legge le poesie dell’altro e de Moraes canta alcune canzoni. Ungaretti ha anche dedicato versi a de Moraes. I due di persona non parlavano mai di poesia, ma di tutt’altro: auto, donne, musica. I caratteri dei due uomini si incastravano alla perfezione. De Moraes si sposò nove volte, aveva un vero e proprio culto della donna. Anche l’amicizia era molto importante per lui.

Erano simili anche artisticamente?
Niente affatto. Vinícius de Moraes era l’esatto opposto dell’ermetismo criptico di Ungaretti: de Moraes aveva bisogno di comunicare il più possibile, Ungaretti invece no. Il primo apparteneva al popolo, il secondo era più elitario.

De Moraes è stato uno dei primi brasiliani a coniugare musica e poesia.
Esatto: molte sue canzoni sono poesie musicate. In un’intervista egli si lamenta proprio della limitatezza delle persone che distinguono necessariamente tra musica e poesia. Ha girato l’Europa con il chitarrista italo-brasiliano Antonio Pecci, in arte Toquinho, il suo alter ego musicale. In Italia i due hanno collaborato anche con Ornella Vanoni, realizzando un album. Ai concerti de Moraes cantava, recitava e raccontava aneddoti seduto a un banchetto bevendo whisky. Erano eventi molto particolari. Fu molto vicino alla Bossa Nova, per poi staccarsene. Era molto aperto alle innovazioni e, assieme al chitarrista Baden Powell, si avvicinò all’Afrosamba. Ha collaborato con tutti i più importanti musicisti brasiliani dell’epoca.

I suoi rapporti con la dittatura militare.
La critica alla dittatura è il fil rouge della sua opera. Il Presidente lo espulse dal Brasile ordinando: “Mandate via quel vagabondo”. È sempre stato limitato e osteggiato dal potere, nonostante fosse un diplomatico. I periodi di dittatura danno luogo a una mirabile arte di protesta. Uno degli intellettuali più accaniti fu Chico Buarque, al quale de Moraes consigliò la via dell’esilio per motivi di sicurezza (infatti Buarque andrà in Italia). Le sue canzoni sono volutamente criptiche per evitare la censura, ma il messaggio è chiaro: “Il maiale è così grasso che non riesce a camminare, il coltello ha tanto tagliato che oramai non taglia più”. La dittatura zittiva gli oppositori e finanziava l’arte di favore. Fu un periodo così terribile che, a differenza di altre situazioni, anche la Chiesa osteggiò la dittatura.

In che modo si intrecciano nella cultura brasiliana letteratura e musica?
La musica popolarizza la poesia: grazie alla Bossa Nova il grande pubblico, me compreso, ha potuto avere accesso a versi stupendi che sarebbero rimasti altrimenti sconosciuti. Molti testi di de Moraes sono stati musicati da Tom Jobim (uno degli inventori della Bossa Nova, assieme a João Gilberto) e interpretate da Frank Sinatra. Vinícius de Moraes scrisse Orfeu da Conceição, una pièce teatrale che coniugava il mito di Orfeo ed Euridice con il Carnevale di Rio. Da quest’opera fu tratto il film Orfeo negro (di Marcel Camus, 1959, vincitore del Premio Oscar), che ha portato la Bossa Nova nel mondo.

www.gianzinho-culturabrasil.blogspot.it


Antonio Oliva & Filomena Roberto 2013
(da rivista Cultura e Dintorni n. 8-9)

su di me

La mia foto
Ariano Irpino, Avellino, Italy
Antonio Oliva è nato nel 1985 ad Ariano Irpino (AV). Ha partecipato a numerosi progetti teatrali e musicali. Nel 2009 si laurea in Lettere Moderne e nel 2012 in Filologia Moderna presso l’Università Federico II di Napoli. Dopo diverse esperienze nel 2015 si abilita all'insegnamento presso lo stesso Ateneo. Ha lavorato a Roma e Bergamo e vive itinerando.
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