Toni guardava la banca e la banca guardava
Toni in quel momento, era intorno all’una, in cui anche un paesino si tramuta
in una metropoli, con tanto di traffico, clacson, qualche incidente stradale e
parecchie profanazioni. Era quasi ora di pranzo e tutti avevano una fretta
indiavolata di tornarsene a casa, sia che avessero un lavoro, sia che lo
stessero cercando, sia che semplicemente avessero passato la mattinata a zonzo,
come quei magnifici vecchi che alle otto li trovi già al bar, e magari sono lì
da ore, con una bella bionda in mano, e magari non è la prima. Ti fanno
impressione, hanno occhi, volto e denti non in buono stato, ma a volte sono
gioviali e ti suscitano molto più interesse umano di un banchiere pulitino.
Davanti a Toni procedevano vari banchieri
di tal fatta. Pareva una rada marcia di fascisti sparuti, pensò Toni; il
cervello dell’artefice aveva già pensato alla possibilità di scrivere qualcosa
al riguardo, l’aveva già sistemata in un quadro narrativo coerente e aveva già
cominciato a pensare al nome del protagonista, ma probabilmente non avrebbe mai
scritto una sola parola su quello. Improvvisamente Beatrice s’intravide uscire
dalla porta. Schizzò in tutta fretta nell’auto decappottabile, che lei aveva
fortemente voluto comprare, e si sedette alla destra di Toni.
- Amore mio, che giornata! Dai, andiamo. -
disse baciandolo frettolosamente sulla bocca e posando la valigetta, la borsa e
uno sciarpino sul piccolo sedile posteriore. Toni fumava una Kim mentolata
lunga e sottile con cui fu attento a non bruciare Beatrice. Spese le minori
energie possibili per ripartire il più velocemente possibile senza apportare
danni a niente e nessuno. Costeggiò la cattedrale, il campanile, attraversò la
piazza principale coi suoi grandi e scivolosi sampietrini bianchi, dunque
imboccò il corso principale diretto verso casa. Distrattamente posò lo sguardo
sul Palazzo di Città, precisamente sul bar sotto il porticato dell’edificio, e
pensò a suo nonno, che ci aveva lavorato tutta la vita. Guidava, fumava,
pensava, piangeva anche, solo una lacrimuccia vicino a un occhio, ben nascosta
dagli occhiali a specchio, ma poteva benissimo essere l’allergia.
Lasciarono in silenzio il caldo centro
soleggiato. Poi Toni chiese:
- Tutto bene oggi? Com’è andata?
- Come al solito, tutto bene. - rispose
lei da dietro i suoi grandi occhiali da sole. - Fa caldo, eh?
- Molto caldo, guarda qua! - disse Toni
facendo un ampio gesto a indicare con la mano aperta la camicia altrettanto
aperta. - Sono tutto sudato. Meno male che abbiamo la cabrio! - disse indicando
la macchina. La amava, ed era reciproco. Lei gli regalava gli ormai pochi
sorrisi della giornata. Non era da quel rapporto di coppia che derivavano i
suoi problemi, né dalla convivenza, né dall’economia domestica o da qualsiasi
cosa potesse imputarsi a quella ragazza. In realtà non sembravano venire da
niente e da nessuna parte. Ma allora da dove venivano?, perché era evidente che
aveva dei problemi.
- In realtà, c’è sempre quella storia lì…
- disse Bea dopo qualche attimo di silenzio.
- Ah, già. Eh… - fu tutto ciò che riuscì a
rispondere Toni, guidando e fumando. L’auto percorreva una ripida discesa,
erano quasi arrivati. Toni guardò Bea, incrociò il suo sguardo. Senza dire
nulla prese il cellulare e fece una chiamata.
- Mio caro, cosa c’è? - Dante Scarlatti
aveva risposto con estrema rapidità e voce gioviale.
- Sempre quella storia alla banca… - disse
Toni senza salutare.
- Uhm. Capito. Me ne occupo io?
- Sì… - disse Toni. - per piacere…
- Nessun piacere. Tu dici, io eseguo. Come
va con l’editore? - disse Scarlatti parlando velocemente.
- Boh, prende tempo. - rispose Toni
parlando lentamente.
- Latita?
- Per così dire…
- Uhm. Capito. Me ne occupo io?
- No, no! - si affrettò a rispondere Toni.
- Ok, ciao. Ah, buon appetito. - disse
Dante riattaccando.
- Pure a te. - disse Toni al telefono
senza linea, immaginando Scarlatti che mangiava uomini. Bea lo guardava.
- Le date? - domandò cambiando argomento.
Erano arrivati.
- 15, 20, 25, 8. - rispose Toni.
- Sei contento? - disse Bea. - Sei una
superstar.
- Lo ero anche quando mi hai conosciuto. -
disse Toni.
- No. - disse Bea. - Ora lo sei.
La porta dello studio si aprì e Toni
entrò. Era pallido, stanco, sudato. L’estate stava lasciando il posto al freddo
che di lì a poco sarebbe tornato a cingere il paese con il suo nebbioso
abbraccio. Già il giallo e il verde non dominavano più i campi, il parco e il
piccolo centro storico, lasciando spazio al rosso di un autunno rosso come le gote
e gli occhi di Toni, il quale si aggirava per lo studiolo con andatura fin
troppo rapida e scattante per quanto appariva assonnato. In effetti era assonnato,
ma non si trattava di una piacevole sensazione di stanchezza che preannuncia
l’arrivo di un meritato sonno ristoratore; si sentiva come un sonnambulo
febbricitante e gli pareva di avere le allucinazioni.
E le aveva: vedeva Scarlatti, l’editore,
Rodolfo, la banca, il direttore raccomandato che a sua volta, tra una cagata e
l’altra, raccomandava altri raccomandati da dietro la parete di vetro del suo
ufficio tutto bianco, impeccabilmente pulito, soffocante, e indossava sempre
una camicia bianca a righine blu.
Poi vide Beatrice, che lasciò stare per
rispetto, e poi l’editore, il paese, la campagna, l’Agglomerato, vedeva tutto
dall’alto e gli pareva di essere prigioniero di una specie di cupola o
piramide. Si sentiva una pala eolica, costretto a girare, a produrre qualcosa
di buono per il bene di chicchessia, certo non per il suo.
Ritornò con la mente alla città, si vide
giovane, bello, povero e felice, soltanto un promettente scrittore e la sua
musa, e poi certo i lettori, i club e i caffè dove passava la notte a creare,
circondato dagli ammiratori. Era stato la migliore promessa non mantenuta della
Bohème cittadina, lo studente più brillante della sua annata che non si laureò
mai, il cuore pulsante più appassionato che fosse mai appassito stritolato
dalle mani ossute del potere.
Ora aveva una vita tranquilla, cosa gli
mancava? Era ancora giovane e bello, non era più povero e lavorava in
continuazione, aveva realizzato il suo sogno di bambino e adesso la sua
passione era il suo lavoro. Già, il lavoro. Il moderno “Timore e tremore”, il
sogno e lo spauracchio della generazione precaria. Ma non per lui, scrittore di
successo, apprezzato letto e seguito assiduamente in tutta la nazione, per ora.
I suoi scritti si diffondevano tramite il web in ogni angolo del globo, di lì a
poco sarebbero uscite le prime traduzioni all’estero. Era tutto quello che
aveva sempre desiderato, bastava solo mantenere la calma… e invece…
E invece ogni giorno si rendeva conto di
essere meno felice del precedente, ma non lo dava a vedere, in fondo era sempre
stato un tipo un po’ strano. Solo Bea gli chiedeva ogni tanto come stesse, ma lui
la rassicurava, le diceva quello che lei voleva sentire, la faceva stare bene e
le dava sicurezza. L’unica differenza tra i due è che lei era davvero felice.
Si versò un bicchiere di bourbon e lo
buttò giù d’un colpo. Poi un secondo. Il terzo lo sorseggiò più lentamente,
seduto allo scrittoio. Il collo gli cedette improvvisamente e dovette lottare
per non svenire, raddrizzandosi repentinamente e buttando all’insù la testa. Lo
scatto gli procurò dolore e cercò di distrarsi accendendo il pc. Squilla il telefono.
- Pronto amore… sì, sono in studio… tutto
bene, ero uscito a fare una passeggiata… una lunga passeggiata… so che è molto
tardi, lavoro un po’ e ti raggiungo, ok?, comincia pure a piovere, sai che mi
piace... no, lascia perdere, non ho fame… va’ a dormire, ok?... tutto bene, sì
sì sicuro… no, non ho bevuto… cioè, sì, beh, un poco… no, non ho sentito
nessuno… ah-ha… no no, nessuna novità, ma sta’ tranquilla… a dopo, buonanotte.
Ti amo. Sta’ tranquilla. (Bacio) Ciao.
Rimase lì imbambolato a fissare un cellulare
senza linea. Dopo 5 minuti digitò un sms e glielo mandò. Diceva: “Ti voglio
bene.”
Sigaretta: una Maria y Juana, famigerata
sigaretta guatemalteca. Erano stati molto felici. Fino al salto di qualità. Poi
arrivarono le visite in piena notte, le correzioni, la censura. Si sentiva
male. L'onorevole Dante Scarlatti per lui era qualcosa a metà tra il Tribunale
dell’Inquisizione e un imperatore romano, e Toni era incapace di rifiutare, di
dissentire, perfino di qualsiasi seppur velato atteggiamento di critica o fronda.
Quella sicurezza gli aveva permesso di realizzarsi, di risolvere i suoi
problemi e di raggiungere ogni suo obiettivo, ma aveva venduto sé stesso,
tradito l’intellettuale indipendente che era, gli infuocati reading dell’Agglomerato,
la sua giovinezza, sé stesso bambino.
Toni era ormai consapevole di essere un
perfetto intellettuale di regime, il suo ormai autorevole nome serviva e
propagandava un potere tutt’altro che umanistico, che tra l’altro stava
uccidendo la sua terra insieme a tutto ciò che amava e in cui credeva. In
cambio, poteva avere tutto quello che voleva. Si guardò nello specchio, gli
capitò di nuovo di vedere sé stesso giovane e si fece schifo.
Sputò in direzione dello specchio senza
riuscire a colpirlo, si diresse verso lo scrittoio e ripiombò sul seggiolone in
legno. Guardò il foglio bianco sullo schermo del pc. Aveva sporcato tutto lo
studio di sangue. Una sirena si udì in lontananza. Portò le dita rosse alla
tastiera e scrisse:
Fine, finalmente.