2
Ennio guardò l’orologio rosso e blu che
ticchettava alla parete. Le sei e tre quarti del pomeriggio.
Faceva caldo nel Paesello e il sole
faceva stranamente bella mostra di sé, appeso al cielo azzurrognolo come
l’orologio alla parete bianca. Stava arrivando l’estate e lui, il sole, si
prendeva gioco della stagione fredda ormai al tramonto e degli abitanti del
Paesello che timidamente facevano capolino come ghiri reduci dal letargo, quasi
increduli. Si prendeva gioco dei mesi avvolti nella nebbia che, forse,
avrebbero ceduto il passo a qualche tiepido momento di gioia, magari a qualche
serata in cui si potesse conversare fuori al pub senza interrogarsi
sull’identità di un interlocutore avvolto nell’eterna foschia, sempre, quasi
ogni sera di ogni maledetto anno.
Questo pensava lui, Ennio, mentre
tamburellava con le dita sulla scrivania Ikea di compensato bianco, nuova o
quasi, piena di polvere rappresa, capelli e macchie di caffè sparsi qua e là.
Ennio tentò di riconcentrarsi e inforcò di nuovo il mouse, il maledetto
aggeggio che non funzionava mai, da quando era piccolo, che aveva sempre
tentato di sostituire con la tastiera, il puntatore o il touchscreen, senza
successo.
A lui piaceva usare le mani. A molti
altri nel Paesello piaceva usare le mani, ma principalmente per dare luogo a
risse. A Ennio invece piaceva creare con le mani, plasmare la musica come
argilla e dare suono ai segni che leggeva sul pentagramma, dare forma alla più
incorporea e inafferrabile di tutte le muse. Glielo leggeva in faccia suo
padre, che da giovane suonava il basso e gli insegnò i rudimenti della chitarra
quando Ennio era ancora bambino, così potevano suonare insieme.
Ennio strimpellava da solo o con gli
amici sulla chitarra Yamaha rossa che in qualche modo si era fatto prestare
dallo zio per intercessione di suo padre, finché una sera alcuni ragazzi più
grandi lo invitarono nel club dove provavano. Il club in realtà era una cantina
che una vecchia alcolizzata aveva affittato per poche lire mensili. Era una
specie di quartier generale: cene, feste di Capodanno, appuntamenti galanti,
tutto insomma, inclusa la musica. Gli amici avevano montato un’essenziale
strumentazione ed era nato quello che ribattezzarono Il Luogo, un posto dove
potersi incontrare per fare qualunque cosa e trascorrerci anche intere
giornate. I ragazzi cominciarono a provare un abbozzo di repertorio e decisero
di chiamarsi, appunto, i Cavern.
Al Luogo doveva esserci una bella
atmosfera e, si vociferava, anche una invidiabile collezione di damigiane di
rosso paesano, alcune talmente vecchie e sinistre che nessuno aveva mai avuto
il coraggio di avvicinarvisi. Incuriosito, Ennio entrò in compagnia di un suo
amico, non ricordava neanche più chi fosse, forse per la nebbia. E fu così che
la vide: una batteria X-Drum marrone, completa di charleston e tutto il resto.
Fu amore a prima vista. Riuscì perfino a bere un po’ dell’inchiostro custodito
nella più vetusta damigiana, superando la paura dei danni fisici e dell’ira
della vecchiaccia. L’iniziazione era completata.
Aveva 16 anni. Imparò a suonare, studiò
fino a farsi venire le vesciche sugli anulari e in breve tempo padroneggiava
bene la quartina, la terzina, la duina, lo shuffle e il reggae beat. Questo gli
permise di entrare senza sforzi nei Cavern nonostante gli anche tre o quattro
anni di differenza con gli altri membri del gruppo. Provavano, suonavano in
giro per locali e feste, spingendosi anche in paesi e cittadine vicine, fino a
quella grande serata in cui i Cavern suonarono per la prima volta al Knak, un pub
dell’Agglomerato.
Ennio rimase folgorato. La gente ballava
sui tavoli, e poi il casino, le luci, i tipi strani. Una volta diplomato, si
trasferì ed entrò al Conservatorio. Mise su un nuovo gruppo, Uncle Ernie &
his Fuckin’ Funny Orchestra. Le serate si intensificarono: era difficile
trovare un locale in cui non avesse suonato, una manifestazione del cui
palcoscenico non avesse calcato le tavole o un musicista del giro con cui non
si fosse incrociato almeno una volta.
Abbandonò gradualmente le asperità punk
rock giovanili per l’influenza della musica classica che studiava con
diligenza. Si diplomò brillantemente al Conservatorio come batterista e
percussionista, ma suonava quasi perfettamente anche chitarra, basso e
pianoforte ed era capace anche di dirigere altri musicisti.
Il successivo passo era nella sua testa
un lavoro stabile e onesto nel campo che lui amava e continuare a divertirsi
facendo serate qua e là, ma soprattutto ormai si sentiva cittadino
dell’Agglomerato ed era lì che voleva vivere. Si ritrovò invece senza uno
scopo, perché non studiava più e non riusciva a trovare un impiego qualunque
che gli permettesse di vivere. Stavano finendo anche i soldi delle serate,
perché ne trovava sempre meno, molti facevano storie per il pagamento e in
generale andavano per lo più dj set e baby gang che facevano hip hop i cui
componenti erano dei veri malviventi, sempre nella loro testa.
Ennio non ebbe scelta: fece la valigia e
tornò mestamente al Paesello, maledicendo sé stesso, la batteria e quell’amara metropoli
che l’aveva prima sedotto e poi sputato via come un seme di anguria. L’unico
che riuscì a prenderla peggio di lui fu suo padre, che era al settimo cielo per
i successi musicali del figlio e non riuscì a consolarsi nemmeno al pensiero di
riaverlo a casa.
Così, senza soldi e senza sorriso, Ennio
si ritrovò quella sera dei suoi scarsi trent’anni a lavorare al pc col mouse
all’arrangiamento di un pezzo composto da Oskuro, l’effettivamente nebuloso
rapper del Paesello, che coi suoi testi scomodi e il suo turpiloquio puerile
gettava fango sulla società effettivamente retta da una classe dirigente che
annoverava tra i suoi principali esponenti suo padre, noto medico di provincia
e consigliere comunale di maggioranza. Era proprio lui che, facendo leva sulla
necessità che un corrotto assessore aveva di mettere a posto un’amica, aveva
premuto per riaprire il vecchio centro sociale nella cui sala macchine ora
sedeva Ennio, litigando con quel coso con la coda che sapeva usare molto peggio
di una bacchetta da direttore d’orchestra. Sul tavolo erano sparse tante
cianfrusaglie, tra cui banconote. Con la sinistra ne afferrò una da 50 € e
iniziò a giocherellarci stropicciandola, mentre tamburellava con la destra sul
mouse. Era frustrato, spazientito, spento. Diede un colpo col mouse sul pad e
lanciò la banconota contro il vetro della sala d’incisione, in cui nessuno
incideva mai.
I soldi ricaddero mestamente sul tavolo
e la porta si aprì.
- Bella frà.
- Ciao Oskù. - Ennio era sconsolato al
pensiero di quel pantalone esagerato, quella felpa capuche e quell’aria di
sfida, ma riuscì ad apparire più inespressivo possibile. Guardò appena gli
occhi del suo giovanissimo interlocutore.
- Hai finito? - disse l’altro nel suo
accento volutamente pesante, mischiando italiano e dialetto. - Io devo incidere
il pezzo nuovo.
- Un altro? Aspetta, devo finire ancora
la base di questo.
- Sbrigati però. Non posso aspettare.
- E dove cazzo devi andare, a chiedere
voti per tuo padre, che già sarebbe qualcosa, o a comprare il fumo, ammesso che
tu ci vada davvero e non solo nei tuoi testi di merda. - Ennio si vide dirlo,
ma non lo fece.
- L’ho scritto stamattina. - incalzava
l’altro. - Si chiama Faccio grane.
- Faccio?
- Grane.
- Ma non è italiano “Faccio grane”.
Forse vuoi dire “pianto grane”.
- No no, faccio. Ennio, come suona il
pezzo? Guarda che questo è il quinto album eh, dev’essere più maturo.
Ennio non fece osservazioni sulle
pretese di maturità artistica di un diciassettenne.
- Ma non è che c’hai da fare?
- Ma che c’ho da fare, qua ormai ci
vieni solo tu. Praticamente lo avete aperto voi e lo mantenete voi.
Oskuro non era certo di aver afferrato,
ma ovviamente non lo diede a vedere. Non trovò niente di meglio da fare che
prendere 100 € e sbatterli sul tavolo. Ennio non lo guardò nemmeno. Forse
lanciò un’occhiata ai soldi, ma non a lui.
- Ti do di più se ti sbrighi. Che ti
credi? Questi per me non sono niente.
“Madonna, ma che vuoi da me?”
- Ennio, ci vediamo domani, base pronta
e che suoni bene, poi registriamo Faccio
grane e forse un altro se lo finisco.
Ennio si girò e lo vide varcare l’uscio
e richiudere la porta. Pensò ai Cavern, all’Agglomerato distante 100 chilometri
eppure lontano anni luce, al Conservatorio, alle scale eoliche, alle misolidie.
- Ma che cazzo ci fa questo con tutti
‘sti dischi che gli stampo? Mio Dio, è il nuovo Frank Zappa, è il nuovo Frank
Zappa!!!
Gridò, si agitò. La stanza non era
insonorizzata, quindi chiunque poteva sentirlo. Ma come sempre c’era solo
l’amica dell’assessore, che tornò a leggere il suo romanzo seduta alla sua
scrivania, senza farci troppo caso.
continua