L’uomo
ha una bara al posto della testa, da ciò si evince che non è un uomo. Nella mano
destra impugna una picozza. Attorno a lui, pugni chiusi emergono da gusci di
lumaca, chiedendo più case, per tutti, mentre due amanti, nel vicolo, che è la
loro casa, si stringono sul materasso seminudi, lei davanti e lui dietro a
cingerla con il braccio sinistro. Una donna pedala in bicicletta a piedi
scalzi, taglia 46, tre ditoni ognuno.
Il
tizio con il feretro al posto della testa stringe anche la mano sinistra. Dentro
la mano c’è un collo. Il collo, lunghissimo ed esile, è quello di un
uccellaccio, giallo anche lui come il tizio; la sua testa, tonda, è sormontata
da un cappello a cilindro come quello dei prestigiatori, il suo sorriso è
ebete, gli si vede solo l’occhio sinistro e questo è il simbolo del dollaro: $.
- Sono le 4, amore, è ora di tornare a casa.
Questa immobile lotta sarà qui anche domani, come tutti i giorni.
- Io mi affaccerò più tardi dalla finestra a
dare uno sguardo. Così, metti che proprio stanotte gli vien voglia di tagliargli
la testa.
La
statua di pietra discende la fiancata diroccata della chiesa di Monteverginella
e attraversa via Giovanni Paladino. È notte e il camion della nettezza urbana
ritira enormi carichi di spazzatura. Il rumore tagliente di una cascata di
vetri fa da contraltare ai motorini che passano, ai giovanotti che ridono,
all’università, un mostro che sempre sbuffa aria, solenne.
La
statua avverte un senso di rovina sublime. Come al solito. Percorre vico
Orilia. Probabilmente è la via più importante di Napoli, la conoscono tutti e
nessuno: spacca a metà l’università Federico II, mettendo in comunicazione via
Mezzocannone con via Paladino. Se non ci fosse tutti noi cammineremmo sempre il
triplo. Detto questo, nell’economia metropolitana le sue mansioni sono: fungere
da cesso, per esseri umani ma soprattutto per le loro bestie, che arrivano
gonfie come palloni aerostatici e se ne vanno via sollevate; ospitare
eroinomani. I suoi vecchi basoli sono sempre imbiancati dalla polvere degli
eterni lavori che si svolgono nei dintorni per trasportare nel ventunesimo
secolo, a poco a poco, i muri e le strade della città dei secoli precedenti,
per assicurare il minimo indispensabile a tamponare la situazione almeno fino
all’indomani, per non perdere tutto. Ormai i basoli rimangono bianchi anche se
la polvere va via. L’hanno accolta dentro di sé e adesso staranno insieme abbracciati
per sempre. La polvere non è più sopra la strada, ora la polvere è la strada.
Per
terra è un percorso ad ostacoli fatto di residui organici, rifiuti, siringhe,
infatti la strada è meglio conosciuta come “il vico delle merde”. Vi si
affacciano porte metalliche che portano chissà dove, chiaramente all’interno
dell’università perché le altissime fiancate dei due edifici universitari di
Mezzocannone sono l’unica cosa che c’è nello strettissimo vico Orilia, che non
si trova all’università ma è composto, formato da essa. Nessuno sa dove
conducono queste porte. A metà strada ci sono quattro scalini non a prova di
motorino e dappertutto si ammirano disegni murali urbani, alcuni dei quali sono
molto belli. Il vico fa schifo, ma non è colpa sua, è colpa di ciò che c’è
sopra, di tutto ciò che gli viene quotidianamente perpetrato. È un po’ quello
che succede a Napoli, in Italia, sul pianeta Terra nella sua totalità. Queste e
altre cose pensa la statua mentre cammina. Nessuno sa chi è Orilia, né si è mai
posto il problema, perché nessuno ha mai letto l’insegna del vicolo, noto più
che altro perché ci facilita il percorso dall’università al pitaro di via
Paladino, luogo di ritrovo di studenti o sedicenti tali, davanti ai quali mai
bisogna dire “via Paladino”, ma sempre “via del Pitaro”, o non ti capiranno.
La
statua percorre Mezzocannone fino al fatidico largo Girolamo Giusso.
- Ciao. Non ti dico il mio nome, perché io sono
il Santo Patrono della tua città e tu sicuramente mi hai già riconosciuto.
Stasera compio 500 anni e dunque sono sceso a fare un giro anch’io.
- Ciao. Mi chiamo Pasquale. Ho 19 anni. E bevo
una Peroni.
La
scrivania è ricoperta di macchie, e ogni macchia equivale a una tazza di caffè
che ha scacciato sonno, emicrania e dopo sbornia, commutandoli con pensieri
creativi pari quasi a quelli procurati dalla sbornia stessa. Una lampada
comprata un pomeriggio d’autunno illumina le poche idee che ho in testa e le
poche ore rimaste, e tutte si dileguano in egual maniera. Provo sì, provo no,
provo a scrivere un po’ in prosa, tanto lo so che ricomincio con le solite
pose, e abbandono, lo faccio sempre, perché non sono capace di comunicare
niente se non con macchie di immagini più o meno autoreferenziali. Filomena
dice che dovrebbero togliermi la laurea (le lauree), ed ha ragione, anche se mi
chiamano “prufssò”, come mio nonno che lo era davvero.
Qualche
tempo fa avrei aspirato una lunga boccata di sigaretta, peggiorando la situazione
del mio colon, già rompipalle di suo. Nella stanza a fianco amici si godono un
film. Io no. Solo in questa stanza dai muri di colori diversi e tutti rotti,
l’ennesima che dovrò lasciarmi alle spalle. Negli ultimi anni sono successe
tante cose qui, ho scritto molte pagine con la mia Olivetti che i miei genitori
mi hanno regalato per un compleanno anni ’90 e quelle tazze di caffè sempre tra
le dita. Ma ora basta, le pareti della casa non parlano più di noi, domani si
parte e non mi rassegno a questo momento, anche se lo aspetto praticamente da
quando sono arrivato in questa casa dove non funzionava niente e dove abbiamo
costruito molto.
Questa
città mi mancherà, è inutile negarlo. Sono sempre quel bambino nella hall
dell’albergo amalfitano, del resto. Desideroso di tornare a casa finché non
scopre che la sua casa lui non sa ancora dove sia. E si mette a piangere. Il
Grande Agglomerato del Sud mi ha visto piangere tante volte. Anche otto anni
fa, quando sono arrivato, per la nostalgia, oppure per qualche problema che ora
sembra così piccolo.
In
questo momento non riesco a pensare al ragazzo sorridente, ben pettinato e con la
camicia viola infilata nei suoi jeans costosi che l’altro ieri ha attraversato
corso Umberto a pochi metri da noi e si è infilato correndo nei vicoli che
salgono verso Forcella: il ragazzo brandiva una pistola che ha puntato verso la
macchina che gli procedeva contro, quindi è salito sul marciapiede che lo
separava dalla meta. Non riesco a pensare a tutta la gente che ha visto e si è
fatta, ovviamente, i fatti propri, come sempre, anche perché credo che tutti
loro abbiano già avuto dimestichezza con una scena simile almeno una volta
nella vita.
Non
riesco a pensare a Peppe, il nostro rapinatore di quartiere che ci inseguiva
fin dentro i portoni di casa, e al fatto che lo (ri)conoscevamo tutti anche da
lontano, nel buio della notte, sul suo motorino chiaro senza targa, con la sua
corporatura scheletrica. Mi ricordo che anni fa comparvero in centro certi
foglietti appesi ai muri con lo scotch, come quelli di chi affitta casa, che
mettevano in guardia da lui. L’arte di arrangiarsi, nostra, sua, che era stato licenziato.
Era un abitué, Peppe, ma non aveva l’esclusiva. Non riesco a pensare a chi
preferisce i quartieri a rischio alle cosiddette “terre di nessuno”, dove la
camorra e i suoi affari non fungono da gigantesco deterrente nei confronti
della microcriminalità, dei piccoli delinquenti degli scippi in motorino per
capirci. Io ho abitato diverse zone dell’Agglomerato, e ho notato che nella
pratica succede proprio così. E non riesco adesso a pensare a questo, o che a
un certo punto Peppe è sparito.
Non
riesco a pensare a tutti quelli che sono spariti, che non ce l’hanno fatta,
alle convivenze di merda, all’università allo stremo, tagli riforme e
leccaculo. Nemmeno al fatto che tra poco devo essere giù a divertirmi, e per
stasera, per un’altra sera ancora “chi vuol esser lieto sia”.
No.
Penso alle cene, tutte le serate, i momenti belli e quelli meno belli, mio
padre che mi porta qui e mi dice, tanti anni prima, davanti a un altro tavolo e
a un’altra Olivetti, di scrivere semplice e andare al sodo. E l’ho fatto. Non
come gli snob incapaci che ho incontrato poi, tutto fumo e niente arrosto, che
leggono venti libri al giorno e non sono capaci di mettere sul tavolo
un’emozione che sia una, giocare la loro partita, rischiare e stare al mondo,
barricati dietro nebulose parole senza dio e senza eros, corrotti schiavi della
moda e del sesso, corpi senza vita. E poi ci sono loro, i rivoluzionari figli
di papà che domani impersoneranno i loro stessi nemici, i duri e puri cui basta
una kefiah e una bestemmia gratuita al volume giusto per scandire a puntino il
loro sentirsi alternativi, i poeti depressi che inflazionano la parola “anima”,
i parcheggiati.
Quanto
a me, mi ci vorrebbe un lavoro serio, da onesto mestierante della parola e
della vita. Non dell’anima. E la certezza, che arriverà, che ci rivedremo
domani, mio meraviglioso, decadente, sempre sognato Agglomerato. Un’altra
stanza mi ha insegnato la poesia, possa ora questa, come musa invecchiata e
polverosa, donarmi la sintesi su questo quaderno giallo che abbiamo comperato
il giorno prima della laurea in un viaggio psicofisico volto ad alleviare il
caldo e la tensione con la peggiore nemica dell’artefice: una irraggiungibile distrazione.
“Remember, we always have a choise”. Possa, questa stanza, tradurmi in prosa. E
ricordarsi di me mentre qualcun altro guarderà di notte nelle aule universitarie
dove la luce, nessuno sa perché, è stata lasciata accesa. O forse nessuno lo noterà
più.
Fuochi
d’artificio. Non petardi, ma proprio fuochi d’artificio. Il rumore proviene da
piazzetta del Nilo, attraversa piazza san Domenico Maggiore e si propaga per
Spaccanapoli correndo verso piazza del Gesù Nuovo. La luce illumina i palazzi
di via Mezzocannone e il rosso della chiesa di un giallo vivo. Sembra una
festa, un tripudio arancione, oppure una di quelle cerimonie cafonissime al
termine delle quali il festeggiato segnala al mondo che è il festeggiato. Pare
che nel centro storico questo segnali invece l’arrivo di una partita di droga.
Da
piazza san Domenico non si riesce a vedere niente perché piazzetta Nilo è
nascosta dalla facciata di palazzo Corigliano che fa angolo. Sediamo sulla
solita fioriera in pietra piena di piante rovinate e bottiglie vuote.
- Hai sentito?
- Sì.
- Vanno tutti a vedere.
- Andiamo anche noi?
- Andiamo a vedere, così capiamo anche noi… o
no?
Fine.
Forse.
napoli
settembre 2012